Letteratura

Okamoto, un Conan Doyle orientale

L'autore giapponese inventò un emulo di Sherlock Holmes. Che aveva un amico ricco...

Okamoto, un Conan Doyle orientale

Il 1917 è un anno importante, per la storia del romanzo poliziesco o detective fiction che dir si voglia. In settembre, a Londra, sir Arthur Conan Doyle, stanco dell'ingombrante compagnia di Sherlock Holmes, pubblica sullo Strand Magazine quello che voleva fosse il commiato del segugio di Baker Street dai lettori. Il singolare racconto si svolge il 2 agosto 1914, dieci giorni prima della dichiarazione di guerra dell'Inghilterra all'Impero austro-ungarico, e s'intitola His Last Bow, cioè L'ultimo saluto. Holmes, ritiratosi dall'attività che l'ha reso una star internazionale viene, per così dire, richiamato in servizio dal governo: si tratta di smascherare un gruppo di spie nemiche. Un mese dopo, His Last Bow diventa il titolo collettivo di otto storie sherlockiane edite da John Murray. Come sappiamo, a distanza di dieci anni la pressione del pubblico costrinse Conan Doyle a tornare sui propri passi e ad attingere al Taccuino di Sherlock Holmes, con i dodici finali racconti.

Ebbene, proprio nel 1917, dall'altra parte del mondo, a Tokyo, Okamoto Kido pubblica sulla rivista Bungei kurabu il primo racconto della serie Hanshichi torimonocho, ovvero la prima detective fiction orientale di ambientazione storica. A quarantacinque anni, Okamoto (nato nel 1872, morirà nel 1939) ha alle spalle una bella carriera da giornalista, prima in redazione e poi fuori, da corrispondente durante la guerra russo-giapponese. Carriera alla quale però si somma la sua vera, grande passione: il teatro kabuki. Ma di passione ne ha un'altra, quella per i racconti del mistero e polizieschi. Il suo detective Hanshichi nasce così, come raccontò lui stesso in un saggio: nel 1916 va in una libreria famosa perché fornitissima di opere di autori stranieri e acquista tutto quanto di sherlockiano vi trova. Padroneggiando benissimo, oltre al cinese, anche l'inglese, ne fa una scorpacciata e poi inizia a scrivere. Non sappiamo se a spingerlo verso questa nuova direzione sia stata proprio la lettura di His Last Bow, con quell'addio (diventato arrivederci) di Holmes, ma sta di fatto che in Giappone Hanshichi raccolse il testimone del personaggio letterario forse più famoso al mondo.

E non finisce qui. Anche la struttura delle storie gialle di Okamoto (raccolte in Detective Hanshichi. Misteri e indagini nell'antica Edo, O barra O edizioni, 2015) è simile a quella del duo Holmes-Watson: sono racconti nel racconto, un rimembrare eventi e casi passati tramite un io narrante nel quale si riverbera l'autore. Se dietro al dottor Watson c'è il dottor Conan Doyle, il quale fu a lungo medico prima di darsi alla scrittura, dietro il narratore delle indagini di Hanshichi c'è, in modo ancor più evidente, un uomo innamorato del nuovo teatro kabuki. Infine, anche Okamoto dopo un po' si stancò della sua creatura, tanto da prendersi un decennio sabbatico, salvo poi recuperarla alla fine degli anni Trenta. Tuttavia, se Conan Doyle quando si allontanava dal suo detective faceva tutt'altro, nel decennio sabbatico Okamoto, alzando il piede dal pedale dell'indagine e pigiandolo su quello della ricostruzione storica, s'inventò I racconti del vecchio Miura, ora proposti per la prima volta in italiano dall'editrice Luni (pagg. 246, euro 24, traduzione e postfazione di Corrado Cucchi).

È proprio Hanshichi, ormai a riposo, a introdurre le dodici storie, presentando al narratore il suo vecchio amico Miura, uno ienushi, cioè un proprietario terriero. Scrive il narratore nel primo racconto: «Poiché, in epoca Edo (cioè dal 1603 al 1868, detta anche periodo Tokugawa, dal nome della famiglia detentrice del potere, ndr), ogniqualvolta si presentasse un caso giudiziario, questo interessava inevitabilmente lo ienushi del quartiere, il suo campo non era affatto distante da quello del vecchio Hanshichi che lavorava come detective privato». Siamo all'inizio nel Novecento. Miura, anziano e malato, vive alla periferia di Tokyo, e nelle storie che racconta spesso protagonisti sono i samurai di livello medio-basso. Uno è la vergogna della sua famiglia perché va in giro a narrare storie in localacci e viene ucciso da un gruppo di ubriachi. Un altro si uccide per colpa della sua golosità. Un terzo, investito dell'onore di suonare la conchiglia per comunicare, non resiste alla tentazione di intonare un brano latore di disgrazie. Un quarto, appassionato di teatro, litiga con alcuni spettatori. Un quinto, incline al bere, non porta a compimento la missione assegnatagli da un facoltoso daimyo, cioè un grande feudatario. Poi ci sono due gokenin, i vassalli dello shogun: uno è vittima della maledizione del pettine trovato per caso, un tema ricorrente nella narrativa giapponese, l'altro è sconvolto quando scopre che sua figlia, mandata a servizio da un riccone, prende abitudini licenziose...

Come a dire che soprattutto nei piani medi della società giapponese, in quella che noi chiameremmo borghesia, i vizi privati sfociano in pubblici disonori, quando non in assassinî. Ma sono due proletari le figure che spiccano in questo panorama, una ragazza e un ragazzo. Lei è una specie di escort, bellissima e marchiata, anche fisicamente, da un dramma familiare, e lui è un figlio di portantini al quale, essendo di gracile costituzione, viene vietato di farsi fare gli allora indispensabili tatuaggi sulla schiena. È la loro dignità, anche se sporcata dalla vita, ad assolverli e, insieme, a condannarli.

E questo il razionalissimo Sherlock Holmes non l'avrebbe per nulla accettato.

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