Ortese, un'eversiva in fuga dalla inutilità del mondo

Nelle lettere all'amica Helle emerge lo spirito di rinuncia della scrittrice. Quasi da santa visionaria

Ortese, un'eversiva in fuga dalla inutilità del mondo
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Se Elsa Morante compone una Cronaca dell'Umanità, ho sempre pensato, dove le visioni si sganciano dalla sterminata orizzontalità di male e bene (rimando a La Storia), Anna Maria Ortese (1914-1998) mischia il male e il bene e la visione sovrasta la realtà in un gioco di aspirazione alla luce; fino alla Pietà.

Vittorini di lei disse che era una «zingara». Lo era, anzi lo fu non per il girovagare in cerca di un rifugio dalla «maledettissima e innocente vita», ma perché la Ortese porta in sé le stimmate del male fuso al bene, in una sorta di pozione nutriente che non può allontanare alla bocca. È il suo calice amaro. Già con Il mare non bagna Napoli, si era tirata fuori dal giovane consorzio umano dei suoi compagni letterati di Sud (la rivista che contava Rea, La Capria, Prunas, Luigi Compagnone...). Li aveva letti come un radiografo. In fondo gli spezzava le giunture mostrando le loro fragilità, vanità. Per assurdo ritraendo il Rea, che più grottesco non si può, gli dedicava venti pagine. Alla fine con un ritratto mirabile. Come se il puntiglio del male le scappasse in bene. In queste Lettere raccolte sotto il titolo drogante: Ama ciò che ti tortura (De Piante editore, pagg. 156, euro 20), la Ortese rivela i suoi assi poveri, digiunanti, ambiziosi e pronti già dalla giovinezza alla caduta più miserabile. Le lettere sono indirizzate alla poetessa Helle Busacca. È una meraviglia dentro il suo mondo chiamato «boscaglia». Ci sono inviti tenerissimi alla sua altrettanto giovanissima amica. Inviti a perseverare con la poesia, a non fidarsi di quell'uomo che al secolo ha il nome di Corrado Pavolini (il meno noto fratello di Alessandro). Anche se fossimo pettegoli non capiamo di che amore le due abbiano patito per l'uomo colto, raffinato di cui la Ortese scrive: «È stato il primo e forse l'ultimo che abbia amato».

Scopriamo che Anna Maria Ortese si candida anche con astuzia celata al successo letterario; addirittura a fare soldi; e però dall'amica Helle, che le offre denari, non li accetta. Prende in dono scarpe, orecchini, pelliccette per sé o per sua madre o per la sorella Maria con la quale vivrà fino a Rapallo dove morì. I suoi aneliti intanto che scrive, li spezza a favore della rinuncia. La rinuncia che prevede anche desideri e carne, come volendo strapparsi via il mondo corrotto, la parte di sé corrotta e ficcarsi nei meandri del male. Il male per vedere forse meglio la luce. Per godere solo delle visioni. La cura delle lettere, di Dario Biagi, è ineccepibile. Chissà se la Ortese volesse raggiungere santa Teresa d'Avila. Sì, lei, ma senza gli eccessi di correre verso la morte per mano del nemico affinché Cristo l'abbracci.

Si staglia una Ortese che non vuole accettare nulla dal mondo. Una ostinata fuga nelle retrovie della sconfitta. Come fosse lì la sua vittoria. Il suo destino, tracciato e sentito, attraversa un luminosissimo buio. Lei è una potente blackstar. Infine si desta La Pietà. Negli anni di Priebke, il criminale nazista incarcerato a Gaeta, per il quale si chiede la liberazione giacché è stanco, malato e vecchio, la Ortese proprio sulle pagine di questo giornale, esortò per lui la Pietà. Non capì nessuno. Per decenni fu dimenticata. Sul finale di partita comparve quel genio di Roberto Calasso che la riportò nella vita pubblica. Colei che scrisse Il porto di Toledo. La cristologica e sprezzante Anna Maria Ortese.

Una eversiva che allontanò il mondo in risposta alla mediocrità, alla inutilità. Queste Lettere sotto le sue parole, Ama ciò che ti tortura, sono un breviario interiore e una miccia accesa. E comunque: «... non ti fidare che dei morti, degli animali e pure dei pazzi».

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