Con La graine et le mulet, Abdellatif Kechiche, già regista del mirabile La schivata, regala al Festival il più parlato, il più colorato, il più musicale e il più epico dei film in concorso. Il titolo rimanda a due degli ingredienti base, la semola e il pesce, per la preparazione del couscous, il piatto forte della ex moglie di Slimane, sessantenne lavoratore portuale, anche lui oramai in disarmo, che gioca l'ultima carta della sua vita, la trasformazione di un relitto di nave, La source è il suo nome, la sorgente, in ristorante specializzato in cucina araba.
L'ambientazione è in quella Francia bagnata dal Mediterraneo dove l'immigrazione è integrazione e sospetto, tensioni razziali sopite e diffidenza, accettazione dell'altro da sé e ostinata quanto sofferta difesa delle proprie radici.
Intorno al protagonista e alla sua piccola-grande epopea si muove un universo familiare misto, la prima moglie, i figli e le figlie, i generi e le nuore, la nuova compagna e la figlia di lei, i vecchi amici del porto, musicisti, pensionati, pescatori; un universo pubblico complesso e intimidente per un uomo semplice, dignitoso ma abituato a subire: i permessi del Comune, le pratiche di dogana, la richiesta di un prestito alla banca...
Straordinario concentrato di figure, di facce e di caratteri femminili, ruotanti fra amore, rancore, rispetto e gelosie che hanno per oggetto quel corpo magro e quel volto segnato, il film ha nella giovane Hafsia Herzi, la figliastra di Slimane, uno dei punti di forza. Si deve a lei la più commovente ed erotica danza del ventre finora apparsa sullo schermo, estremo tentativo di salvare la serata di inaugurazione del ristorante allorché, per una serie di motivi, quel couscous così magnificato non arriva sul tavolo dei clienti.
«Volevo fare un film sulla generazione degli sradicati, la loro nostalgia, le loro speranze, il loro essere francesi di origine araba» dice Kechiche. «E volevo raccontarli nella loro pienezza, senza folclore o preconcetti.
Ero stanco di contrasti fra padri e figli, di discussioni sociologiche sulle differenze fra magrebini di ieri e quelli di oggi, di discorsi intellettuali sugli errori e/o le responsabilità di chi più di mezzo secolo fa cercò in Francia una nuova patria, pur avendo ancora nel cuore quella vecchia. La graine et le mulet è il mio omaggio a loro». Lo Slimane del film, Habib Boufares, non è un attore professionista, ma un compagno di lavoro del padre del regista, operaio portuale anche lui. «Il ruolo era stato scritto per Mustafa Doini, un attore bravissimo, purtroppo scomparso durante la lavorazione... La sua morte mi aveva molto colpito e avevo pensato di non poter continuare, non sapevo bene dove e come trovare chi lo potesse sostituire con la stessa credibilità... È stato mio padre a segnalarmi Habib. “È un uomo di cui ti puoi fidare“ mi ha detto, e questo termine, “fiducia“, nella nostra cultura equivale a un concentrato di elementi positivi, giustizia, nobiltà, lealtà, fierezza. E infatti è risultato perfetto».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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