da Milano
Una separazione sofferta. Una svolta radicale. E soprattutto il doloroso allontanamento dai figli. Che crescono lontano. Ma molti uomini si ribellano. Magari con reazioni platealmente sbagliate come nel caso del signor De Martino.
Professor Claudio Risé, cosa ha pensato davanti alle immagini di un padre che tenta di darsi fuoco in diretta tv?
«Ho pensato che quell'uomo è sopravvissuto al dolore di 13 anni di separazione dal figlio, ma non è riuscito a salvaguardare la tranquilla forza del padre dentro di sé. Quella coraggiosa stabilità che il padre è chiamato a far crescere nei figli, rimanendone umile, ma determinato testimone. Quindi rischia di bruciare, di dare fuoco, a quell'immagine di padre che per tanti anni ha disperatamente difeso».
Un padre che lotta trasmette energie diverse di un padre che piange, qual è il «modello» migliore?
«Il padre che lotta può anche piangere; non si tratta di modelli contrapposti. Anzi, la personalità deve rimanere unita, e saper vivere senza scissioni questi diversi momenti. Nell'attuale modello culturale, che tende a privilegiare i momenti spettacolari, a volte falsi, il padre è chiamato comunque ad essere il testimone della sobrietà, del gesto misurato, da trasmettere con l'esempio ai figli, che ne hanno enorme bisogno».
In che misura l'episodio del signor De Martino è il riflesso, più in generale, della crisi del ruolo paterno nella società contemporanea?
«Ci sono decine migliaia di padri, in Italia, che vivono lo stesso dramma, e ne subiscono devastazioni assai simili. Negli Stati Uniti, dopo l'11 settembre, la maggior parte degli intervistati disse che il principale problema americano non era il terrorismo, ma quello dei padri che non potevano crescere i figli che avevano generato. Questa cacciata e ostilità per i padri è il grande problema dell'Occidente, di cui anche la vicenda di Nicola De Martino è espressione».
Cosa si scatena nella mente di un padre «scippato» nel suo ruolo di genitore?
«Si sviluppa una crisi d'identità. È padre, ma privato dei figli, verso i quali non può quindi svolgere la sua funzione. Ciò innesta una crisi affettiva molto forte, accompagnata da delusione verso il mondo circostante, che tende a non riconoscere la gravità della situazione. Tutta la sfera dell'autostima e della sicurezza di sé viene attaccata, e messa a dura prova».
Ogni anno in Europa si suicidano 2mila padri che non reggono allo stress della lontananza dai figli. Cosa le suggerisce questo dato?
«Che occorre aggiungervi il numero, ben più numeroso, di quelli che non si tolgono la vita, ma la considerano comunque finita».
Perché le madri continuano ad esser preferite ai padri in caso di affidamento dei figli?
«Le forti pressioni verso la dissoluzione della famiglia tradizionale si appuntano innanzitutto contro il padre. Se il padre può essere sostituito da una provetta, uno sconosciuto, o cacciato, la famiglia non c'è più. Quest'obiettivo sta molto a cuore, oggi, a un vasto schieramento politico, ideologico, e di costume. La cui affermazione passa dalla distruzione del padre».
Rispetto al passato sta cambiando questa sorta di pregiudizio nei confronti del padre?
«Oggi disponiamo, di trent'anni di statistiche che dimostrano che la cacciata del padre è all'origine dei principali malesseri dei figli, dai suicidi, alle tossicodipendenze, ai comportamenti violenti e antisociali. La crociata antipadre si fa affannosa, perché ogni giornata porta dati ed elementi contrari al suo programma».