Parisi fa l’equilibrista: finanziare la Difesa senza irritare la sinistra

Il ministro prepara un ddl per ottenere la riconferma delle missioni evitando l’incognita dell’aula ogni 6 mesi

Mario Sechi

da Roma

Superare la tempeste di sabbia irachene e afghane non sarà facile per l’Unione. Il ministro degli Esteri e quello della Difesa hanno provato con una serie di interviste a placare i bollenti spiriti degli alleati di sinistra, ma le loro sortite per ora sono andate a vuoto. E così, mentre la scadenza del voto sul rifinanziamento delle missioni militari all’estero si avvicina, Massimo D’Alema e Arturo Parisi adottano la strategia del passo dopo passo. Nessuno dei due può dire con certezza quanto durerà il governo e se D’Alema comincia a dare segni di fatica e appannamento (leggere l’intervista a Repubblica nella quale afferma con poco senso della misura di aver rilanciato l’immagine internazionale dell’Italia «in un mese» e parla genericamente di «riduzione delle spese militari complessive»), il secondo si trova non solo con il problema di un decreto da far digerire alla sua maggioranza, ma con un settore, quello della Difesa, che non può vivere alla mercè dei piccoli Bertinotti.
Parisi per evitare il tour de force semestrale dei decreti per finanziare le missioni sta pensando di varare un disegno di legge che regoli diversamente l’ok parlamentare e dia agli Alleati un minimo segnale di affidabilità dell’Italia dopo il dietro-front iracheno e le polemiche sull’Afghanistan, ma il problema non è solo legislativo perché nell’Unione c’è chi vuole strizzare il bilancio della Difesa e afferma che i soldi delle missioni all’estero devono essere impiegati in altri settori. Sarà questo il prossimo terreno di scontro nell’Unione. Patrizia Sentinelli, viceministro agli Esteri, ha già battuto cassa per chiedere più soldi per il settore della Cooperazione, ma se la Farnesina ha i conti tirati, Palazzo Baracchini rischia il collasso. E Parisi lo sa. Tanto che i vertici dello Stato Maggiore stanno già elaborando un piano per chiedere un reintegro finanziario per il 2006 pari a circa 600-700 milioni di euro. L’equazione «meno missioni = meno soldi» non funziona perché l’Italia non può mettere in crisi la Nato (lasciando Kabul) e il settore militare ha bisogno di finanziamenti ingenti per mantenersi efficiente e competitivo.
Gli ultimi dati pubblicati pochi giorni fa dal Sipri di Stoccolma, uno dei più influenti think tank del settore, sono chiari: la spesa globale dell’Italia nel 2005 per la Difesa è stata pari a 27.2 miliardi di dollari. Nel 2004 era pari a 27.8 miliardi di dollari e rispetto ai partner internazionali il piatto piange. Francia e Germania, due Paesi che pesano sulla politica estera e sono in diretta competizione con l’Italia, infatti spendono rispettivamente 46.2 e 33.2 miliardi dollari.
Se poi dalla cifre globali si passa ad analizzare la qualità della spesa, ci si accorge che le spese per pagare il personale della Difesa assorbono ben il 72 per cento dei finanziamenti e poco resta agli investimenti, un misero 12 per cento. Tutto questo, spiegano fonti della Difesa, si traduce in «calo di addestramento, decadenza delle capacità e aumento dei rischi del personale, impossibilità di procedere al ricambio dei mezzi fuori uso, tecnologia obsoleta». Se non ci sono investimenti, inoltre, l’industria militare del nostro Paese rischia l’emarginazione proprio mentre l’Agustawestland (Gruppo Finmeccanica), si aggiudica un contratto da 658 milioni di euro per il supporto operativo degli elicotteri EH101 Merlin utilizzati dalla Royal Navy e dalla Royal Air Force.
A Palazzo Baracchini c’è chi parla di ««situazione insostenibile, destinata ad incidere in maniera drammatica in assenza di correttivi, con ripercussioni immediate sugli impegni internazionali Ue e Nato assunti dall’Italia». Trovare i soldi - vista la concorrenza di altri ministeri e il vento antimilitarista che soffia nella maggioranza - è un’impresa. Parisi avrebbe in mente di proporre che le vendite di immobili della Difesa (un patrimonio ingente, ma non sempre alienabile) non vadano a diminuire lo stock del debito pubblico, ma servano a rimpinguare le casse del ministero.

Operazione che ha bisogno non solo di un sì (improbabile) degli alleati della sinistra di governo, ma anche di un semaforo verde dell’Unione europea. Se questo è lo scenario, quella di Parisi sembra una missione impossibile.

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