
Pochi artisti sono immobili e definitivi come Parmigianino. La vita tormentata e inquieta, il suo destino e il suo spirito di avventura indicano un'affinità di carattere con l'impetuoso Caravaggio, e la sua biografia potrebbe accendere curiosità morbose e riservare stimoli per affascinare anche i più distratti. Come i più grandi, anche Parmigianino morì giovanissimo, nella coincidenza di quella età, 37 anni, che vede scomparire prematuramente artisti e poeti in serie, da Raffaello a Modigliani. Per di più, rispetto a Caravaggio, Parmigianino non soffre alterazioni attributive e nuove agnizioni spettacolari e spesso commerciali. Il suo è un catalogo stabile, uno schieramento di capolavori. A partire dai più antichi affreschi di San Giovanni Evangelista fino a quelli estremi di Santa Maria della Steccata, abbiamo, tra il 1524 e il 1540, soltanto opere straordinarie. Dalla Madonna con il Bambino e i santi Giovanni Battista e Girolamo fino alla Antea, dalla Schiava turca alla Madonna dal collo lungo, i capolavori accertati e ammirati di Parmigianino sono gli stessi individuati da Lili Fröhlich-Bum nella prima grande monografia del 1921, Parmigianino und der Manierismus. La pubblicazione di quel volume, di elegantissima veste grafica, dimostra l'importanza dell'artista e la dimensione universale e non solo italiana da lui raggiunta, ben prima della monografia su Piero della Francesca, curata da Roberto Longhi nel 1927, e della mostra dedicata a Caravaggio nel 1951 a Milano.
Per avvicinare Parmigianino occorre, forse, partire dalla fine. Occorre immaginarlo perso in altri pensieri, distratto dalla pittura, e non credo per una malevola interpretazione delle fonti antiche, da Ludovico Dolce a Giorgio Vasari. Credo che ci sia del vero, in quella descrizione così suggestiva e così letteraria che ci lascia un accoratissimo Vasari: "Intanto cominciò Francesco a dismettere l'opera della Steccata, o almeno a fare tanto adagio, che si conosceva, che v'andava di male gambe. E questo avveniva, perché avendo cominciato a studiare le cose dell'alchimia, aveva tralasciato del tutto le cose della pittura E che fu peggio, gli huomini della compagnia della Steccata, vedendo che egli aveva del tutto tralasciato il lavoro, havendolo per avventura, come si sa, soprapagato, gli messero lite: onde egli per lo migliore si ritirò fuggendosi nella notte con alcuni amici suoi a Casalmaggiore".
Ecco dunque il Parmigianino a Casalmaggiore, eccolo trasformato da quel giovane bellissimo dal volto d'angelo in "un uomo salvatico, e un altro da quello che era stato"; eccolo ritrovare in qualche momento la lucidità e dipingere anche, e ancora con straordinario impegno e talento, "per la chiesa di Santo Stefano, in una tavola la Nostra Donna in aria, e da basso San Giovambattista e Santo Stefano", superbo capolavoro di un artista volto a pensieri altissimi, pari soltanto a quelli che attraversavano la mente, in quegli anni, al più vicino, e mai a lui accostato convintamente, dei maestri della generazione precedente, il Bramantino. In questa grande tavola tarda si riassumono i pensieri di tutta una vita: due santi, sapienti come filosofi antichi, uno dei quali, santo Stefano, tiene in mano una pietra levigata come un lingam, giganteggiano entro un sacro recinto delimitato da una balaustra, uscita dalla mente di un architetto severo come Bramante ed elegante come Raffaello. Certo, Parmigianino aveva iniziato con Antonio Ferrari d'Agrate, spirito ancora albertiano, in San Giovanni Evangelista; per poi concludere con Giovanfrancesco d'Agrate proprio nella chiesa della Steccata. E ora ne ricorda il magistero in questo motivo architettonico che separa il mondo dei santi-eroi da quello degli dei, apparizione lontana fra le onde luminose che squarciano le nuvole disponendole in un'ideale corona. A terra, implorante, inginocchiato, strisciante, sta il devoto committente, appoggiato come un mendico al ginocchio di santo Stefano, eccezionale esercizio di ritrattistica. Eppure, a guardar bene, Francesco arriva, nel pensiero della pittura, dov'era partito. La metafisica Pala di Santo Stefano, puro teorema, sia sul piano estetico sia sul piano teologico, è l'estrema maturazione di un pensiero che era iniziato quasi vent'anni prima, quando il pittore, dopo l'acerba prova del Battesimo di Cristo, oggi conservato presso la Gemäldegalerie di Berlino, inizia il suo densissimo cammino artistico con la pala ora nella chiesa arcipretale di Santa Maria a Bardi, ma dipinta per la chiesa di San Pietro a Viadana. È ancora il Vasari a seguirlo passo passo, a indicarci le sue imprese fra i sedici e i diciannove anni. Nella storia dei pittori sono sempre i primi tempi i più difficili; e, come un rabdomante, lo storico tenta di ricostruire, di individuare tracce, di trovare indizi negli anni precedenti le prime opere firmate o le commissioni importanti di un artista riconosciuto. Ci si muove con grande incertezza negli anni della formazione, cercando di vedere da quali spunti è partito quello che appare all'improvviso un genio. E invece i primi passi di Parmigianino sono certi, didascalici, e soprattutto noti.
Dunque, Francesco nasce a Parma nel 1503, come risulta dall'archivio del battistero della città alla data 13 gennaio, giorno del suo battesimo.
La famiglia, originaria di Pontremoli, si era trasferita a Parma fin dal 1305. Morto il padre Filippo, pittore, nel 1505, Francesco viene formato dagli zii Michele e Pier Ilario, anch'essi pittori. Per capire dove potessero portarlo quei due zii volonterosi basta osservare, proprio in quegli anni cruciali, la loro pala a quattro mani, dipinta nel 1514 per la chiesa parrocchiale di Scurano. Francesco studiava la pittura sulle scolastiche, prudenti e ritardatarie prove degli zii, che "non mancarono con ogni accuratezza di farlo attendere a disegnare sotto la disciplina di eccellenti Maestri, a ciò pigliasse buona maniera". Sarebbe interessante capire a quanti e quali "eccellenti maestri", in quegli anni e in quei luoghi, faccia riferimento il Vasari; e sembra inevitabile perciò pensare a Correggio. E infatti, in altro luogo, nell'edizione Torrentina del 1550, chiudendo la vita di Antonio da Correggio, Vasari scrive: "Lasciò il suo discepolo Francesco Mazzola, parmigiano, il quale lo imitò grandemente". Per quale ragione, nell'edizione Giuntina del 1568, il Vasari non ricordi la lezione del Correggio non è dato sapere. Anche se, come prova l'imponente corpus di fogli a noi pervenuto, l'esercizio di quegli anni è soprattutto nel disegno. Così si arriva all'opera prima, "all'età di sedici anni... dopo haver fatto miracoli nel disegno". È la tavola ricordata, con il Battesimo di Cristo, per la chiesa dell'Annunciata a Parma, resa nota dal Voss, ma da una parte della critica revocata in dubbio, insieme così acerba e così matura da sembrare fotografata nel giudizio di Vasari che mostra di averla vista: "Ancora chi la vede resta meravigliato, che da un putto fosse condotta sì bene una simile cosa".
Siamo nel 1519; il panorama dei maestri è presto detto: Correggio, che in quello stesso anno attendeva agli affreschi nella Camera di San Paolo per la badessa Giovanna da Piacenza, ma del quale, già negli anni precedenti, certamente Parmigianino aveva studiato la sussiegosa Adorazione dei Magi, ora a Brera, e le Nozze mistiche di santa Caterina, ora a Capodimonte; Dosso Dossi, con le ombre di Giorgione e di Sebastiano del Piombo, e di cui Francesco poteva già conoscere la pala con san Sebastiano nella chiesa della Santissima Annunziata a Cremona, ora a Brera; ma soprattutto Raffaello, di cui era certo corso a veder la Madonna di san Sisto a Piacenza, arrivata qualche anno prima, e da quel momento, come rivelano i due angeli pigri e curiosi, sempre nella memoria di Parmigianino; Raffaello, ancora, e sempre, per la Santa Cecilia inviata, con grande clamore ed emozione di tutti, a San Giovanni in Monte a Bologna.