Quella partita senza fine con la speranza di trovare il gatto vivo

Un secolo fa, un gruppo di fisici visionari ha rivoluzionato la scienza. Con effetti quotidiani

Quella partita senza fine con la speranza di trovare il gatto vivo

Da qualche tempo, un paio di settimane, probabilmente dal 31 di maggio, c'è uno strano fenomeno che si ripete nel posto di lavoro. Nulla che sia davvero così sconvolgente, ma senza alcun dubbio potrebbe essere un'anomalia. Su tutti i televisori si sussegue la diretta di una partita di calcio, sempre la stessa. Ogni volta, al fischio d'inizio i calciatori in maglia blu con barra rossa verticale lanciano senza alcun motivo la palla in fallo laterale. Da lì in poi le azioni si replicano con matematica certezza e non resta che contare il numero dei gol, immancabilmente cinque. I colleghi si emozionano e gridano, si esaltano, oppure si attapirano, soffrono, vivendo una sorta di giorno della marmotta. Ammetto che a me questo non sta accadendo, anche se mi piacerebbe vivere come fanno loro, seguendo un canovaccio senza sorprese. Qualcosa a quanto pare me lo impedisce. È la consapevolezza che, ripetizione dopo ripetizione, il copione potrebbe cambiare. Non puoi dirlo fino a quando l'evento quotidiano non sarà realizzato. È come quel gatto chiuso in una scatola che contiene gas radioattivo a lento rilascio. Fino a quando non si apre il contenitore, il micio può essere sia vivo sia morto. Una particella subatomica può infatti occupare tutte le posizioni possibili su una funzione d'onda. Solo quando vai a misurarla collasserà su un valore determinato. La vita prima di essere vissuta è solo probabilità. È così che mi sono convinto che, ripetendo all'infinito quella partita, l'Inter potrebbe sconfiggere il Paris Saint Germain. Quello che per i miei colleghi è uno sberleffo o una punizione, per me è una speranza. È la Champions di Schrödinger.

È una fuga dalla certezza della morte, così quello che può assomigliare al caos mi sforzo di viverlo come un equilibrio in divenire. L'importante è nascondersi al tempo. È successo anche adesso, a cento anni dall'anno mirabile della fisica quantistica, non riesco a starci dietro e il ritardo prende la sua forma imponderabile e purtroppo ricorrente, un inseguimento senza speranza, perché per quanto cerchi di accelerare, di fare prima, il segmento che percorri non è mai sufficiente a coprire l'intera distanza. È una corsa sulle tracce dell'infinito e la metà di infinito è comunque infinita.

Ai confini dello spazio-tempo la contemporaneità degli eventi non è affatto scontata, dipende dal punto di vista. Tutto questo agli altri appare come una scusa infantile. Ti parlano di orari, di responsabilità, di rispetto per chi sta ogni santo giorno dove deve stare, per lavoro, per impegni definiti, perché la vita è fatta di appuntamenti precisi e inderogabili. Tu dici: avete ragione. Solo che da qualche parte del cervello deve esserci un'anomalia, qualcosa che non funziona, la sensazione radicata che in realtà, come sostiene qualche fisico teorico, il tempo non esista. È solo una convenzione e viene misurato in questo modo strambo fatto di secondi, minuti, quarti e mezze ore, oppure complete, che vengono scandite su un quadrante. Ma come si fa a misurare qualcosa che non esiste? Come si fa a costruire un'intera esistenza su una finzione? Sì, avete ragione, su questa cosa del rispetto e tutto il resto. È che se ti ritrovi a inseguire perennemente il tuo ritardo è solo per sfuggire alla sensazione del nulla che pulsa nel cuore. È ribellarsi a una costruzione esclusivamente mentale. La materia, nella sua profondità, se ne frega del tempo e dei conseguenti ritardi. Tutto accade quando accade. È l'apertura mentale all'inatteso, all'incerto, all'inverosimile, perfino al mistero. Non bisogna averne paura.

Ora non è il caso di sprofondare in elucubrazioni mistiche, da Jedi di terza categoria, con l'anima pop di chi non vede l'ora di snocciolare frasi del tipo «fare o non fare, non esiste provare», ma la questione di non lasciarsi condizionare dalla paura è davvero un principio etico. È un architrave cristiano che di solito non ti insegnano a dottrina. Non avere paura del prossimo, dell'altro, perché forse è l'unico modo per sentirsi davvero liberi. È non vedere a priori, per umana ricerca della sicurezza, nello sconosciuto un nemico. È un salto mentale che non appartiene a questa scimmia in teoria sapiente che per sopravvivere non può che essere malfidata. Chi sei tu? Cosa vuoi da me? Il primo pensiero è che non vieni in pace e sta all'altro l'onere della prova. È così che ci si saluta da lontano a braccia alzate per mostrare di non avere armi e da vicino ci si stringe la mano per scongiurare lame nascoste. L'umano pretende certezze che l'universo non garantisce. L'infinitamente piccolo libera pacchetti di energia di cui non si può conoscere allo stesso tempo il valore o il movimento. È la difficoltà di adattarsi all'indeterminato che fa degli umani disperati cercatori di certezze, come se la vita avesse bisogno di quote minime di epifanie, di rivelazioni improvvise che finiscono per sconcertare l'esistenza. È la risposta all'imprevedibile che genera violenza e guerra. È la logica del non mi fido e sparo per primo.

È la tendenza a ragionare per aperto e chiuso, per sì e no, per riconoscibili codici binari, rifiutando tutte le potenzialità di menti che esplorano le infinite posizioni che ci sono tra l'uno e lo zero.

Il gatto non è mai semplicemente vivo o morto. È una probabilità. È la scelta di scommettere su Dio, o su qualcosa che gli assomigli, sapendo che, se esiste, senza dubbio gioca anche a dadi, ma di nascosto.

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