Roma - Il programma economico del governo Monti è già pronto. Lo hanno scritto a Bruxelles e a Francoforte. Il menù è noto: lacrime e sangue. Per cucinarlo il presidente del Consiglio in pectore avrà pochi ingredienti e già noti e al massimo la possibilità di variare qualche ricetta. Quindi tanta tradizione e poca nouvelle cuisine.
Già. Il presunto nuovo uomo del nostro destino - un destino a termine - farà bene a tenere la lettera della Bce consegnata all’Italia lo scorso 7 agosto ben in vista sulla scrivania di Palazzo Chigi, perché dovrà compulsarla di frequente. Tra cose da iniziare e cose che il governo Berlusconi aveva già avviato, c’è ben poco da inventare. Del resto, quello che i mercati chiedevano all’Italia era semplicemente di praticare un’iniezione di fiducia con l’addio del Cav, invocato più all’estero che in patria, e la sua sostituzione con un tecnico di buona reputazione internazionale. Fatto questo, le misure sul tavolo sono quelle.
Partiamo dal fisco. Sembra quasi ineluttabile il ricorso alla patrimoniale, il prelievo straordinario che servirebbe soprattutto ad accontentare Vendola e compagni, garantendosi che se ne stiano mansueti per un po’: le ipotesi sono quelle di un prelievo sui conti correnti o di una tassa sui patrimoni superiori a un minimo, che potrebbe essere fissato a 1,5 milioni tra immobili, investimenti e risparmi. Naturalmente il fisco è una leva importante sulla quale agire. La lettera della Bce prevede il termine di fine gennaio 2012 per avere una road map precisa della riforma fiscale attraverso la quale si calcola di poter risparmiare 20 miliardi entro il 2013, e questa è un’altra scadenza ineludibile per il futuro esecutivo, così come sarebbe stato per il governo Berlusconi. Un probabile grande ritorno sulla scena è quello dell’Ici sulla prima casa, e questo non farà felici gli italiani: anche perché l’ipotesi è quella di ritrovarsi l’imposta sugli immobili aumentata in seguito alla possibile revisione dei valori catastali sulla base dei quali l’Ici è calcolata.
Secondo tavolo su cui giocare una partita difficile ma necessaria è quello delle pensioni. La più importante posta in gioco è quella dell’innalzamento dell’età per il ritiro a 67 anni per tutti entro il 2026, a cui si somma l’abolizione progressiva delle pensioni di anzianità, lasciando in campo solo quelle di vecchiaia. Una patata bollente per chiunque, ma l’annunciata assenza della Lega dal governo Monti potrebbe facilitare il compito.
Terzo fronte, quello del lavoro. La cancellazione dell’articolo 18, quello che di fatto impedisce il licenziamento nelle aziende con almeno 15 dipendenti, potrebbe essere riproposta se l’esecutivo avrà la forza di ignorare gli strali della sinistra e dei sindacati. Molto dipenderà da chi dovesse sedersi alla poltrona di ministro del Welfare. Se fosse Pietro Ichino, come pare possibile, si aprirebbe la strada alla cosiddetta flexsecurity sul modello scandinavo, del quale proprio Ichino è l’ambasciatore italiano: più mobilità e maggiori ammortizzatori sociali per chi perde il lavoro. Un modo per contemperare competitività ed equità, voce questa che figura in cima alla lista della spesa del Pd. Vale la pena ricordare però che Berlusconi si era già convinto a percorrere questa strada. Quindi anche in questo caso poco cambia nel passaggio da Berlusconi a Monti.
Infine c’è l’obiettivo strategico della crescita, per ottenere la quale Monti starebbe già pensando, più che a tagli sulla spesa pubblica, al rilancio del disegno di legge per la concorrenza e a una robusta dose di liberalizzazioni, in particolare nei settori del gas, delle poste, dei trasporti e dei servizi pubblici locali, nei quali l’Italia è decisamente indietro rispetto agli standard europei. Ricetta questa di cui Monti è da sempre notoriamente ghiotto.
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