di Gian Marco Chiocci
Si snoda in 13 pagine l’unica verità processualmente documentata di Vito Ciancimino sulla presunta «trattativa» fra Istituzioni e Cosa nostra. Trattativa che nulla avrebbe a che fare con quella di cui si discute oggi, stando almeno a quel che lo stesso ex sindaco mafioso di Palermo scriveva nel memoriale sequestrato nel 2005 dai carabinieri a casa del figlio Massimo. Nel manoscritto dal titolo «i carabinieri», Ciancimino padre racconta i suoi rapporti con gli ufficiali del Ros, Mario Mori e Giuseppe De Donno, intenzionati - così scrive Ciancimino - a farlo collaborare con la giustizia per assicurare i boss alle patrie galere. In quelle pagine non vi è alcun riferimento alla trattativa fra Stato e Antistato secondo quanto sarebbe invece documentato nel «papello» consegnato dal giovane Ciancimino a quegli stessi pm che all’epoca, pur interrogando a ripetizione il padre divenuto «collaborante», diedero poco seguito alle dichiarazioni ribadite anche nel suo libro «Le Mafie» dove si faceva riferimento ad Andreotti, ai delitti politici, ecc. Dichiarazioni esplosive stranamente snobbate anche dall’ex presidente dell’Antimafia, Luciano Violante. E così l’unico investigatore che riuscì a convincere Ciancimino a pentirsi è anche l’unico a ritrovarsi nei guai: Mario Mori è stato infatti processato e assolto per il covo di Totò Riina, è sotto processo per non aver arrestato Provenzano, domani sarà chiamato a difendersi dal papello. Anziché chiedersi perché nessuno volle approfondire le rivelazioni di Ciancimino, e perché le stragi cessarono senza che la mafia ottenesse nulla in cambio, si concentra l’attenzione su un anonimo pezzo di carta. Scritto quando, e da chi, nessuno lo sa.
«Il capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno varie volte, in incontri (più o meno occasionali) con mio figlio Massimo (suo conoscente e coetaneo), lo aveva sollecitato con gentilezza e cortesia a chiedermi di poter avere un abboccamento con me. Io, con altrettanta cortesia, ogni volta avevo rifiutato il colloquio. Però la successione di tre fatti clamorosi: A) l’assassinio dell’onorevole Lima B) la strage in cui perì Falcone che mi ha inorridito C) la strage in cui perì Borsellino che mi ha lasciato sgomento, mi hanno indotto a cambiare idea e ho accettato di incontrare il capitano De Donno, a casa mia, a Roma (via San Sebastianello numero 9).
«Come è naturale e logico avrebbe dovuto parlare il capitano, dato che la richiesta di colloquio era stata avanzata da lui. Invece, senza tanti preamboli, parlo io ed affermo che respingo con repulsione e sdegno la situazione che si è venuta a creare, ma puntualizzo che quello che è più grave, non riesco a vedere lo sbocco. Ipotizzo per i tre fatti delittuosi un’unica matrice, dietro la quale è possibile intravedere un disegno politico. Aggiungo che in ogni caso (sia che la matrice fosse mafiosa, sia che fosse politico-mafiosa, sia che fosse solo politica) la Sicilia, comunque, ne sarebbe uscita massacrata su tutti i piani. Ero angosciato perché vedevo lo sdegno dipinto sulla faccia dei miei figli. Manifesto al capitano la mia più ampia collaborazione, però concordiamo che la mia disponibilità doveva essere trasferita a livello superiore sul piano istituzionale. Mi parlò del colonnello dei carabinieri Mori e restammo d’intesa di reincontrarci.
«Questo colloquio tra il capitano e me si è svolto verso la fine di agosto (25 o 26) del 1992. Col colonnello Mori e col capitano De Donno ci siamo incontrati l’1 settembre successivo sempre a casa mia a Roma. Esposi il mio piano in termini schematici: cercare un contatto che mi consentisse di dire che Mori e De Donno erano venuti a trovarmi e avevano serie preoccupazioni per la situazione ed avrei aggiunto che le condividevo pure e in pieno e concludevo chiedendo di conoscere se esistevano margini seri per un dialogo, tenendo presente che l’iniziativa del colonnello Mori e del capitano De Donno, allo stato, si doveva considerare strettamente personale.
Questo piano fu dai carabinieri accettato. Dopo una ventina di giorni, riuscii a stabilire un incontro con una persona. Pensavo che questo interlocutore fosse asettico invece assunse un atteggiamento che considerai altezzoso e arrogante perché - riferendo le cose dettegli dalle altre persone con le quali faceva da tramite - mi apostrofò: “Ah lei?” Allora aggiustino prima tutte le sue cose, poi discutiamo.
«Questo atteggiamento altezzoso e arrogante se non altro perché c’erano problemi temporali, nel senso che il mio processo in appello era fissato per il 18 gennaio e mancava (illeggibile, ndr). Sta di fatto che questo atteggiamento altezzoso rafforzò in me l’idea della possibile matrice politica di cui ho sopra detto. Ci fu poi un ritorno di fiamma delle persone che ho sopra detto, le quali mi diedero una prima delega a trattare. Chiamai i carabinieri i quali mi dissero di formulare questa proposta: “Consegnino alla giustizia alcuni latitanti grossi e noi garantiamo un buon trattamento alle famiglie”. Ritenni questa proposta angusta per poter aprire una valida trattativa e convenni con i carabinieri di comunicare a quelle persone che le trattative dovevano considerarsi chiuse, come se i carabinieri non avessero più niente da discutere. In realtà avevo convenuto con i carabinieri che era meglio non fare conoscere la loro proposta. Troppo ultimativa, perché essa avrebbe chiuso definitivamente qualunque spiraglio.
Stabilii peraltro di continuare a titolo personale il mio rapporto coi carabinieri. Frattanto riflettevo che quelle persone, per assumere quell’atteggiamento arrogante, dovevano essere pazze o avere le spalle coperte. Io mi ero presentato all’intermediario facendo nomi e cognomi, menzionando cioè (autorizzato da loro) De Donno e Mori come mio “lasciapassare”, dicendo che i due, al pari di me, erano preoccupati per la situazione. A questo punto il mio interlocutore avrebbe potuto esprimere qualche valutazione sul contatto che i carabinieri avevano preso con me, ma non espresse alcuna valutazione, soltanto meraviglia perché i carabinieri si erano rivolti proprio a me. L’interlocutore (che era anche ambasciatore) neppure mi chiese che cosa i carabinieri volessero. Si limitò a dirmi ciò che ho già riferito e cioè che si erano rivolti a me prima di tutto per aggiustare le cose mie, solo che non si trattava di un aggiustamento come spostare un’auto. C’era quantomeno un problema di tempi per il processo di appello fissato per gennaio.
In sostanza la mancanza di interesse dell’interlocutore-ambasciatore per la proposta dei carabinieri e nel contempo la prospettiva di un impossibile aggiustamento mi portarono alla riflessione che un atteggiamento simile potevano tenerlo solo persone che fossero pazze e con le spalle molto coperte. Decisi allora di passare il Rubicone e dissi ai carabinieri che volevo collaborare efficacemente, chiesi che i miei processi “tutti inventati” si concludessero bene. Consegnai una copia del mio libro-bozza. Proposi - come ipotesi di collaborazione - un mio inserimento nell’organizzazione a vantaggio dello Stato. Ero consapevole che se fossi stato scoperto avrei potuto rimetterci la pelle ma volevo così (illeggibile, ndr) la mia vita. Dissi a De Donno che avrei chiesto il passaporto per le vie normali poiché mi occorreva per l’ipotesi di inserimento (...).
«I carabinieri accolsero la mia proposta e mi sottoposero - su sua richiesta - mappe di alcune zone della città di Palermo nonché atti relativi ad utenze Amap perché esaminando questi documenti e facendo riferimento a due lavoretti sospetti in quanto suggeritimi a suo tempo (una decina di anni fa) da persona modesta ma vicina ad un boss, fornissi elementi utili per l’individuazione di detto boss. Proposi ai carabinieri l’utilizzazione di alcuni canali che avrebbero potuto consentire una certa penetrazione nell’organizzazione, nel senso che durante il periodo in cui ero stato assessore ai Lavori pubblici e quando mi occupai del Pep, dovendo risolvere problemi complessi che comportavano anche la possibilità di agevolazione (...) avevo avuto tutta una serie di rapporti che consentivano di notare alcune cose.
In particolare ero stato stimolato ad avere conversazioni con certe imprese. Allora non avevo accettato ma ora (stabilito il rapporto coi carabinieri) potevo riattivarmi per vedere se il collegamento con quelle imprese potesse portare alla confidenza utile nell’ambito del rapporto stabilito coi carabinieri. Il 17 dicembre partii per Palermo con l’intermediario-ambasciatore che doveva darmi una risposta entro il martedì successivo. Gli avevo raccontato (d’intesa coi carabinieri) una “palla” sonora, grossa come una casa, vale a dire che un’altissima personalità politica (che non esisteva) che era una (illeggibile, ndr) mia e dei carabinieri, voleva ricreare un rapporto tra le imprese, senza che potesse riprodursi l’effetto Di Pietro, così da consentire alle imprese (ormai tutte senza una lira) di riprendere il cammino produttivo. Comunicai l’impegno dell’interlocutore-ambasciatore a ripresentarmi entro martedì al capitano De Donno.
Patto tra Stato e mafia: ecco l'altro papello, quello di Ciancimino
Il memoriale in cui l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino racconta il suo incontro con i vertici dei carabinieri Il documento smentisce l’ipotesi di un accordo fra lo Stato e la mafia
Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.