Come tutte le maschere immortali, Arlecchino non riposa mai. Soprattutto da quando ha affidato la sua incontenibile ilarità a Ferruccio Soleri che, dal lontano'63, lo porta in giro per il mondo. Acclamato a furor di popolo nei paesi più lontani, Arlechin batòcio ora si appresta a balzare tra un lazzo e una piroetta, martedì sul palco della Scala. Che, per la prima volta nella sua storia, invece di far risuonare stentorei do di petto sarà percorso dal passo cadenzato dell'eroe più popolare di Goldoni. Naturalmente in omaggio a Strehler nel decimo anniversario della morte.
Ma come si accosta Soleri a questo ambizioso traguardo?
«Con paura, curiosità e un pizzico di superstizione. In fondo, ogni volta che penso ad Arlecchino, mi sembra di essere tornato ai miei inizi quando, all'Accademia il mio maestro Orazio Costa volle assolutamente affidare a me, fiorentino di nascita e formazione, il compito di ricrearlo nella Figlia obbediente, uno dei capolavori misconosciuti di Carlo Goldoni».
Quasi una predestinazione, no?
«Direi piuttosto un miracolo per me che, fino ad allora, non avevo mai parlato in veneto. Anche se, per fortuna, a darmi una mano intervennero Moschin, Lucia Catullo e Marcello Moretti, il primo Arlecchino di Strehler».
Già, Moretti. È stato il suo primo maestro?
«Sì. Tutto capitò nel '57 quando il Piccolo fu invitato ufficialmente negli Stati Uniti. Negli Usa si prevede contrattualmente che il primo attore sia sempre affiancato, per ogni evenienza, da un sostituto. E fu a me che, guarda caso, facevo già parte dell'establishment di via Rovello che arrivò la proposta di Moretti di seguirlo in tournée».
Sarà stato un grande successo...
«O una gran paura? Ancora adesso non ricordo bene quel che avvenne. Come si sa, nella giovinezza l'incoscienza prende spesso il posto del coraggio. Ma fu una grande prova, questo sì. Anche se più tardi quando, scomparso Moretti, Strehler mi affidò la tremenda responsabilità di questo ruolo-chiave della sua concezione drammatica, dovetti ristudiare da cima a fondo un carattere complesso come quello del Servitore di due padroni».
Come ricorda oggi Strehler?
«Con grande rimpianto.
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