di Salvatore Niffoi
Si può morire vergini a novantasei anni dopo aver vinto la battaglia quotidiana contro le tentazioni e convinti di essersi guadagnati un posto in paradiso? Per zia Fella Biosa è andata proprio così. Prima una vita passata a lavare i piedi sporchi ai matti, a sfamare i mendicanti, a dire di no ai pretendenti in calore, a sgranare rosari, a espiare i peccati degli altri con un cilicio di spinasanta sotto la fardetta, a raccogliere elemosine per i lebbrosi. Poi, una mattina d'inverno, quando i fantasmi impazzirono tra le casseruole e i ricordi di una stanza che somigliava a un baule, arrivò muta la paura dell'aldilà, il terrore che l'anima fosse solo un biscotto da inzuppare nel caffè amaro del nulla eterno. Accudire i girasoli e le viti del pergolato, lasciarsi intontire dal profumo dei gelsomini, in quel cortile che sembrava una fetta di luce rubata al cielo, dava una sensazione di eternità, di paradiso terrestre. L'inferno era invece il forno che stava in cucina, con le sue lingue di fuoco sempre pronte a ciacciarare appena sentivano odore di zolfo e cisto secco.
La paura dell'aldilà zia Fella non l'aveva mai presa in considerazione, era come pensare che uno dei suoi gatti le potesse strappare gli occhi a unghiate. Si poteva morire col dubbio di aver sacrificato tutto per niente, anche se sacrificarsi era stato un piacere? Meglio la vecchia filastrocca: «Lampana, lampana / chie morit campat / chie campat morit / a terra sabatori».
Il corpo ossuto di zia Fella Biosa, Pauleddu l'aveva conosciuto sempre uguale, somigliava a quello di una bambina nata vecchia che non aveva avuto tempo per giocare con le bambole o scrivere pensierini nei quaderni di scuola. A otto anni lei già cucinava e lavava i panni. A dodici sapeva fare il pane crasau e usare la falce come un uomo. La sua passione però erano i dolci: meringhe, papassini glassati, biscotti, amaretti, aranzadas, sospiri. Sospiri tondi e zuccherati come i suoi. A forza di stare davanti alla bocca del forno a infilare rami di cisto e teglie di lamiera con gli impasti si era consumata in sudore e, a vederla in penombra, sembrava una lunga pannocchia sgranata. Un giorno di dicembre che il freddo crepava le labbra e gelava l'alito in bocca zia Fella non si alzò dal letto.
«Vai e chiama subito Pauleddu e la sua famiglia, che devo dirgli cosa urgente. Che porti anche la bambina, ricordatelo! Mira che quando ci sono loro non deve entrare nessuno, neanche tu!» disse alla sorella Redenta.
«Già ne hai di gaddighinzu! Perché lo vuoi adesso a Pauleddu?»
«Fai quello che ti ho detto e muda, che da domani hai finito di pelearmi!»
Dentro il suo camicione da notte zia Fella tremava di freddo anche sotto le coperte. Masticava con le gengive consumate un siero color mosto. La dentiera dentro un bicchiere d'acqua posato sul comodino, insieme agli occhiali rotti e a una pila d'immaginette, ogni tanto dondolava come fosse cosa viva in attesa di masticare altri giorni. Per terra un lavamano pieno di liquidi senza odore e due pantofole di quelle pelose come blatte.
«Vieni, Paulè! Vieni vicino a zia che mi scaldi!».
Zia Fella gli strinse le mani tra le sue. Ce le aveva di marmo, erano già astragate prima che lui arrivasse. Stava morendo a pezzi, prima i piedi, poi le mani, poi quel principio di titte che non aveva mai avuto, poi il ventre scavato come una vajone, poi il suo cuore grande quanto la montagna di Turuddone.
Zia Fella Biosa era sorella di mannai Zoseppa, morta di parto l'anno della temporada manna del '56, quando la neve era salita a coscia e i cristiani mangiavano solo patate arrosto e fave bollite. Aveva passato tutte le notti della sua esistenza sveglia, a cercare di capire con il rosario in mano il mistero della solitudine che accompagna gli uomini come una croce invisibile. Il suo viaggio purificatore nella vita, così carico di sofferenze altrui e privo di piaceri personali, era stato una via crucis con poche soste. Una visita in ospedale per togliere i calcoli dalla bile, un pellegrinaggio a Lourdes e uno a Loreto, la novena settembrina al santuario della Madonna di Gonare, il vai e torna alla vigna di Sa Tinzosa il giorno della vendemmia. L'unica voglia che non riusciva a controllare era quella per i fichi neri dell'orto. Quando era stagione ne mangiava fino a farsi a beffe. Redenta la rimproverava ogni volta che si metteva davanti a un lavamano colmo di quei frutti che sembravano pieni di carne appena macinata: «Se il rosario avesse avuto fichi al posto dei grani avresti pregato dall'impuddile fino al tramonto. Ifrigonzia! Qualche giorno t'irzopperai a forza d'inghiottire quei semi!»
Fella si ammacchiava per il dolce di quei fichi che candivano sulla pianta, come fosse stato un piacere che ripagava tutti quelli volutamente abbandonati. Per averli anche d'inverno si era presa l'abitudine di farne collane e seccarli al sole. «Mai manchino!» diceva. «I fichi e i fulmini sono un segno della presenza di Dio in terra»
«Daemi unu vasu, Pauleddu meu! Dammi un bacio grande, che non ho mica la peste!»
Lui la baciò sulla fronte. La sua pelle aveva l'odore dei campi di grano di Dore Vonu dopo un temporale.
«Paulè, narami sa veridade, cosa sto, morendo?».
«Ma non dilliriate, zia Fè! Siete fresca come una rosa!».
Oltre il velo cremoso dei suoi occhi grigi traspariva l'amarezza per non aver imparato le regole dell'ultimo gioco, quello che più di tutti gli altri richiede pazienza e allenamento: il gioco della morte.
«Paulè, mi sembra che me ne sto andando! Non mi sento più le gambe e il cuore mi sembra fermo. Ascoltalo, Paulè, dimmi se batte ancora!». Pauleddu avvicinò l'orecchio al petto scarnito. Tùn, tùn, tùn, tùn. Il cuore batteva lentamente, come una sveglia a fine carica. «È allegro come un merlo!» le disse. «Voi fate in tempo a seppellirne ancora tanti di paesani!».
La paura dell'imprevisto, del dubbio, del chissà cosa, in quel momento le sfiorò i pensieri e la rattristò.
«Bel traffaneri imbroglionazzu che sei! Mi stai prendendo in giro come una bambina! Vero?».
Una stoccata di luce penetrò dal lucernaio sopra il portoncino d'ingresso. In quel momento entrò Grascia, la figlia piccola di Pauleddu. Una ventata di profumo di ciclamini scacciò via l'odore colloso della morte. Da quando era nata lei, suo padre aveva iniziato a credere nei miracoli. Vederla crescere era la sua felicità più grande. La chiamava «la mia poesia ambulante». Molti gliela invidiavano, quella gioia che si portava dentro, e quell'invidia portava male.
Grascia si avvicinò al lettino di zia Fella e le tirò la coperta fino al mento.
«Non vi scoprite, zia Fè, che altrimenti vi viene il catarro!».
Lei stirò le rughe e trovò la forza per un sorriso.
«Vieni a zia, figlia mì! Avvicinati che Fella ti dà un bacio portafortuna!».
Le baciò la guancia, poi si mise a piangere.
«Che vergogna, di fronte a una creatura! Passami un fazzoletto dal cassetto del comodino, Paulè!».
Grascia alzò gli occhi e puntò il mento, voleva andare via e non aveva il coraggio di dirlo. Zia Fella lo capì subito.
«Solo un minuto, figlia bè, non te ne vorrai andare senza un angelo custode? È un po' vecchietto ma sa fare ancora del bene. Paulè, prendimi un'immaginetta di santa Rita da Cascia!». Il viso di zia Fella si era fatto umido di rugiada e le pupille diventavano piccole come semi di malva. «Questa tienila sempre vicino al cuore e, ogni volta che la guarderai, ricordati di zia Fella che ti proteggerà da lassù!».
Grascia infilò nella tasca del paltò l'immaginetta e uscì salutando con la mano.
«A crasa, ci vediamo domani».
Per zia Fella Biosa non ci sarebbe stato un altro domani, il suo era l'ultimo oggi e per sempre.
Quando Grascia uscì, l'odore acre della morte si fece sentire di nuovo e impregnò le pareti della stanza. Odore di sughero bruciato e miele di timo. Un carro a buoi traversò la strada, poi l'orologio della torre batté la decima ora. Una nuvola scura si fermo a lungo sulla casa di Sae Passizza.
«Accendi la luce, Paulè, accendi la luce!».
Zia Fella aveva paura di andarsene al buio. Poi, uncinando piano l'indice, lo fece accostare e sottovoce gli disse: «Paulè, prendimi un fico passito dal comodino, sono nascosti sotto i fazzoletti! Un istante prima che chiudo gli occhi aprimi la bocca e mettimelo tra la lingua e il palato».
Il fico era di quelli neri morbidi, così cremoso da sembrare fresco.
«Paulè, che mi sta succedendo? Ho paura! Credo in Dio e nel Paradiso, ma ho paura. Tittia che fredda che mi sento! Fredda tutta mi sento, anche nella punta del naso».
«Vado in cucina da Redenta a prendervi la borsa dell'acqua calda» propose il nipote.
«No, lascia, Paulè! Rimani a farmi compagnia, che sento che me ne sto andando!».
Lui strinse i denti e inghiottì le lacrime. Zia Fella continuava a guardarlo negli occhi.
«Ohi, mama mea, ite vrittu! Ohi, ite iscuru! Paulè, cosa ci sarà di là?».
In quel momento arcuò la schiena come se l'avessero pugnalata alle spalle, poi smise di respirare.
«Tanti alberi di fichi neri, zia Fè! Di là ci sono solo alberi di fichi neri!».
La nuvola scura andò via e il mattino tornò chiaro. Quando entrò piangendo zia Redenta, lei aveva già il colore del sonno eterno.
Salvatore Niffoi
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