Contrariamente al detto popolare, tra i due litiganti il terzo non gode, ma soffre. Undici Paesi europei, tra cui l’Italia, non ricevono più da ieri quel 50% di gas russo che arriva loro attraverso i metanodotti dell’Ucraina e sono costretti o a ridurre subito i consumi, come le «povere» Bulgaria e Slovacchia, o attingere alle scorte come i Paesi più ricchi e meglio attrezzati, come Italia e Germania. Gli ottimisti pensano che la crisi potrebbe risolversi in settimana, visto che russi e ucraini riprenderanno le trattative già oggi e l’Unione europea ha minacciato contromisure se i rifornimenti non saranno ripristinati in 24 ore.
Ma lo stop alle forniture potrebbe anche prolungarsi, sia perché le posizioni di Mosca e Kiev rimangono lontanissime, sia perché non si capisce bene a che gioco stia giocando Vladimir Putin (nella foto): la partita è davvero solo economica, o «lo Zar» vuole mandare anche un messaggio politico?
La disputa è una riedizione di quella di due anni fa, che fece nascere le prima serie perplessità sulla eccessiva dipendenza della Ue dal petrolio e dal gas russi. Mosca pretende da Kiev l’immediato saldo degli arretrati e un aumento dagli attuali 179,50 dollari per mille metri cubi di gas a 450. Kiev risponde chiedendo un aumento del 20% dei diritti di transito per il gas inviato in Europa attraverso il suo territorio. Per esercitare pressioni sul partner, la Russia gli ha prima tagliato le forniture, e poi lo ha accusato di «rubare» una parte del gas destinato ai clienti europei, ma l’Ucraina, in preda a una gravissima crisi finanziaria che l’ha già costretta a chiedere l’aiuto del Fondo monetario, non si è lasciata intimidire e sembra contare sull’intervento europeo per far venire Putin a più miti consigli (o, temono alcuni esperti, per farsi pagare da Bruxelles una parte della bolletta). Una cosa è certa: con la decisione di ieri di chiudere i rubinetti proprio in coincidenza con un’ondata di gelo, Putin ha messo una volta di più a repentaglio l’affidabilità della Russia come principale fornitore di energia della Ue, e indurrà gli europei a intensificare la loro ricerca di fonti alternative. Sul perché lo abbia fatto, circolano varie teorie. Alcuni ritengono che, pressato dalle difficoltà finanziarie, abbia forzato la mano nella trattativa con l’Ucraina nell’illusione di poterla chiudere senza creare un incidente internazionale; altri sospettano che il suo obiettivo sia di far lievitare i prezzi internazionali del gas, inducendo i consumatori a cautelarsi con il potenziamento delle scorte; altri ancora pensano che il suo obiettivo sia di vincere le residue resistenze europee al finanziamento di due nuovi gasdotti, sotto il Baltico e sotto il mar Nero, che taglierebbero fuori l’Ucraina e quindi eliminerebbero il pericolo di ulteriori blocchi. Ma la tesi più accreditata è che il braccio di ferro con Kiev faccia parte del disegno putiniano di ristabilire una forma di egemonia sulle repubbliche dell’ex Urss che, come la Georgia e appunto l’Ucraina, flirtano troppo con la Ue e, soprattutto, con la Nato. Nella fattispecie, potrebbe avere avuto la sua parte anche la ben nota animosità di Putin nei confronti del presidente ucraino Yuschenko e del primo ministro Yulia Timoshenko.
La partita, comunque, non è priva di rischi per il Cremlino, cui la crisi economica mondiale ha già inflitto colpi durissimi: il crollo dei prezzi degli idrocarburi (da cui dipende il 60 per cento delle sue entrate) ha mandato i conti pubblici in profondo rosso, molti capitali esteri sono stati rimpatriati, il rublo si è fortemente svalutato, la Borsa di Mosca ha perso più del 50%, molte aziende sono sull’orlo della bancarotta e la popolarità del governo è in picchiata.
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