(...) Siccome tacevo, colpito dalla violenza delle sue parole più che dalla loro intelligenza, lui ne approfittò per farmi un bel sermone sui bisogni e sul modo in cui si risponde ai bisogni: trasferire glianziani in una struttura più moderna e in un contesto cittadino (il ricovero era sito in una vecchia, bellissima villa su una collina in faccia al lago), razionalizzare i servizi sia medici che sociali (inclusi i trasporti) e, a livello culturale, promuovere seri dibattiti sulla funzione sociale dellanziano.
Disse anche che i bisogni andavano inquadrati in una visione dinsieme, politica: solo così prendersi cura della condizione di quelle persone poteva avere un senso.
Risposi come potevo, perché a differenza di lui non frequentavo quelle scuole-quadri destinate alla formazione della dirigenza della sua Federazione, dove si imparavano a memoria le soluzioni di tutti i problemi. Dissi che secondo me il crollo psicologico di quelle persone era dovuto alla lontananza da casa, alla sensazione di essere messi ai margini di tutto, e che lincontro con qualcuno che portava loro non solo un po di allegria, ma un po di considerazione per le loro dignità umana non era proprio uguale a zero.
Quei cinque anni passati, tutte le domeniche, in compagnia dei miei «vecchietti» mi hanno insegnato molto su come devessere trattato un essere umano, sul rispetto che esige, sulla stima di cui ha sempre bisogno, fosse anche in punto di morte. Si può dire che la mia idea di cosa sia un uomo si sia formata, in parte, tra quelle mura.
In questi giorni di elezioni mi capita spesso di ripensare a quel lontano episodio. In fondo, almeno dal mio punto di vista, il dibattito culturale sul governo della città si riduce, in gran parte, ai contenuti di quella conversazione.
Per me e per i miei ingenui amici ciò che contava di più era la persona umana nella sua concretezza, e sentivamo, sia pur confusamente, che la politica, per poter fare veramente il proprio dovere, avrebbe dovuto piegarsi sulla poltrona o sul letto dove giacevano e ascoltarli, come facevamo noi.
Per il mio compagno «compagno», viceversa, la priorità non era per luomo, ma per le strutture. Risento ancora le sue parole: «per cambiare luomo bisogna prima cambiare le strutture, perché luomo è determinato dalle strutture». Perciò dare una carezza a chi soffre, ascoltare il racconto della loro vita, cantare una canzone con lui non aveva, a suo parere, nessuna importanza.
In seguito, avrei imparato che lo sviluppo della mia posizione aveva un nome: sussidiarietà. E che lo sviluppo della posizione del mio compagno «compagno» si chiamava statalismo.
La posta in gioco oggi a Milano è, tutto sommato, ancora quella.
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