Vincenzo Boccia vale il 72% del Pil del Paese. Non da solo, naturalmente, ma in quanto presidente nazionale della piccola industria di Confindustria, perché tanto vale il prodotto nazionale delle Pmi italiane. Ossia le aziende con meno di 250 addetti, che numericamente rappresentano il 99,9% del totale delle imprese nazionali. Per questo il Giornale ha chiesto a Boccia quale sia la reale situazione della nostra economia, in questa fase convulsa della crisi economica e alla vigilia del nuovo anno, che si spera decisivo per la ripresa economica.
Come stanno le imprese italiane, ce la fanno?
«Non si può rispondere in termini generali perché mai come ora è stato chiaro che le medie di settore non hanno alcuna significatività: nel Paese cè chi è rimasto semplice produttore e chi è rinato imprenditore. Mi spiego: negli anni Ottanta bastava fare bene un prodotto di qualità ed era una garanzia di successo. Oggi non basta più e la recessione lo ha mostrato con ancora più forza. Oltre al prodotto bisogna sviluppare tutte le altre funzioni aziendali, dal marketing alla distribuzione. Quindi le imprese che ce la fanno sono queste. Mentre chi oggi si trova ad affrontare un problema generazionale, uno organizzativo e uno tecnologico, non ha solo da fare i conti con la recessione e non ce la può fare».
Allora, allinterno di Confindustria, cè forse spazio per un po di autocritica, per non aver spinto le imprese ad innovare di più quando si era ancora in tempo.
«Sicuramente cè una questione culturale, in cui Confindustria svolge un ruolo importante. E ora lo stiamo svolgendo. Lo dimostra lesperienza delle reti dimpresa: se ci fossero più alleanze sarebbe positivo. Il tema delle dimensioni delle imprese è importante: se vogliamo stare sui mercati, e non solo quelli europei, ma anche nei Paesi che crescono del 6-8%, occorre avere una dimensione maggiore per le nostre imprese. E la strada più diretta è quella dellalleanza, che si può fare in fretta, anche perché se aspetti, perdi il turno. Con unalleanza lo fai dalla sera alla mattina».
Si vedono già i risultati?
«In quanti lo stiano già facendo non lo so. Ma molte imprese si stano sforzando. La prima fase della recessione, quella della resistenza è finita. Ora siamo nella seconda fase, quella della reazione. E bisogna reagire perché è dimostrato che è la media dimensione quella che tiene di più. Le piccole devono diventare medie. In questo modo, dopo la fine della recessione, quelle che saranno rimaste sul mercato saranno fortissime: le imprese che aiuteranno il Paese a tenere i fondamentali a posto. Anche perché ricordiamoci che arriveranno presto altre sfide difficili: nei prossimi anni ci saranno 5 milioni di imprese europee che avranno problemi generazionali.
Il tema dei contratti di lavoro: per la grande industria, vedi Fiat, è dirimente. Per voi?
«Francamente devo dire che noi siamo oltre. Abbiamo firmato 12mila accordi anche con la Cgil. La questione riguarda pochi grandi settori industriali, mentre la piccola e media impresa è diventata più unita, più comunità, cè il rispetto dellimpegno di entrambe le parti. E grazie agli accordi fatti, le imprese si sono riorganizzate e riposizionate. Sappiamo che negli ultimi 10 anni il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto, ma in Germania è sceso. Dobbiamo farci i conti: la Germania ha eliminato il conflitto tra capitale e lavoro legando maggiore produttività a maggiori salari. È lunica strada che possiamo percorrere in Europa».
Come si è evoluto, in questi due anni di crisi, il rapporto con le banche?
«Passata la fase traumatica dellinizio della recessione, abbiamo iniziato a dialogare. LAvviso Comune su 60 miliardi di mutui alle pmi è stato un risultato importante.
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