Le lettere di Gabriele D’Annunzio a Barbara Leoni, più di mille, abbracciano un periodo (aprile 1887-novembre 1892) di oltre cinque anni che è fondamentale nella formazione dello scrittore. Si delinea e si precisa in quel tempo non solo la sua tecnica espressiva, ma anche il suo gusto estetico e quell’entusiasmo generatore di fantasmi poetici che accompagnerà e dominerà tutta la sua opera.
Si manifesterà altresì in lui, agli inizi di quel 1887 così nefasto per l’Italia e per la sua poetica coloniale, una eccezionale prontezza nel sentire il vento dell’attualità se non dell’opportunità. All’annunzio della strage di Dogali egli compose un epicedio, che pur risultando poi una ingegnosa scopiazzatura dal Tommaseo, avrà eco profonda nel cuore degli italiani. I caduti di Dogali che il Carducci indicò in una lettera privata come «cinquecento contadini che non potendo scappare erano morti», per D’Annunzio saranno «quattrocento bruti morti brutalmente», almeno nell’uscita di un personaggio di romanzo (lo Sperelli del Piacere), ma comunque un ottimo argomento per dimostrare un amor patrio destinato ai tardivi ardori che lo portarono a farsi eroe e cantore delle imprese di Buccari, Vienna e di Fiume.
Gabriele D’Annunzio conobbe Elvira Natalia Fraternali, la donna che poi chiamò Barbara, Barbarella, ma anche Ippolita, Mirando, Jessica e Gorgonia, il 2 aprile 1887 a Roma, durante un concerto del Circolo Artistico di via Margutta. La Fraternali era nata a Roma nel 1862, un anno prima di D’Annunzio, nell’ambiente della piccola borghesia. A ventitré anni, cedendo alle pressioni dei familiari aveva sposato Ercole Leoni, conte bolognese senza contea, che poté lasciar presto a Bologna per ricoverarsi nella casa paterna, a Roma.
L’amore tra Barbara e D’Annunzio divampò immediatamente, mettendo in movimento certi meccanismi ispirativi del Poeta che sembravano aver bisogno di una eccitazione amorosa per accogliere e sviluppare quei nuovi temi e quelle nuove forme che si disposero poi nel romanzo Il trionfo della morte e nelle Elegie romane destinate a segnare il suo felice ritorno alla poesia.
Le lettere alla Leoni documentano fedelmente, quasi come sinopie, il processo di formazione di alcune opere dannunziane, oltre a costituire nel loro complesso un epistolario che fa storia degli atteggiamenti estetici e sentimentali non meno che del costume dell’epoca, rivelando spesso, nelle più esasperate forme del priapismo, la natura primitiva del Poeta, rapito nel gorgo di una passione destinata a restare la maggiore e la più autentica della sua vita, ma dominato da un’ossessiva sensualità. È facile infatti notare nelle lettere alla Leoni, un suo atteggiamento di costante eccitazione sessuale, con tutte le componenti psicopatologiche che sono presenti nella sua natura, quasi retaggio di solitarie ancestrali accensioni. E basterebbe soffermarsi sul feticismo di quel «fazzoletto insanguinato avvolto in un pezzo di giornale», dove c’era anche «una cosa tua di molta intimità, quella che io ridendo chiamo la selletta...»: probabilmente un innominabile oggetto d’epoca, per uso igienico in particolari ricorrenze. «Non so dirti - scrive - che strana essenza di vita usciva da quelle cose morte»: e siamo nel cuore di un estetismo decadente, tra realismo e sozzeria. Ma dal lezzo immaginabile di quei residui, si libera il poeta: «le magnolie odorano, e il cielo appare lavato dalla pioggia, stellante, palpitante».
Le ricadute sono tuttavia continue e potrebbe uscirne, senza gli intermezzi poetici, un D’Annunzio piuttosto animalesco, malato di satiriasi, con la fissazione della rosa, altre volte chiamato il gonfalon selvaggio, che è l’esibizione di un asinino patimento, di un mostruoso fiore, che il poeta offre all’amata nel furore di una rappresentazione erotica certamente anteriore ad ogni estetismo e riconducibile a un mondo faunesco di pastori abruzzesi.
Il periodo della Barbara Leoni fu, per D’Annunzio, in gran contrasto con l’abbondanza della sua carica sensuale, il più duro e difficile per la scarsezza delle sue risorse economiche. Gravato da una famiglia costosa, moglie e tre figli, e dalle spese che gli imponeva uno stile di vita per lui irrinunciabile, a Napoli, dove si era ridotto nell’agosto del 1891 per sottrarsi ai creditori romani, conobbe giornate di fame e di disperazione.
Nel settembre del 1892 il grande amore di Barbara e Gabriele è agli estremi. Non solo per sazietà di entrambi, ma soprattutto perché Barbara aveva capito, nonostante le smentite di Gabriele, che un’altra donna era entrata nella sua vita. Da tempo infatti la contessa Maria Anguissola Gravina Cruyllas di Ramacca dominava il cuore e i sensi del Poeta, che l’aveva ingravidata pur tra gli spasimi epistolari per la «buona, dolce, umile, dolente, fortissima, fedele» Barbara.
Nelle lettere, che sembrano in quel tempo farsi più strazianti e che spesso contengono invocazioni d’aiuto, quasi che D’Annunzio sentisse approssimarsi come un temporale la Ramacca, suona ancora, insistente e continuo, il flauto della lussuria, ma per lasciar presto il posto a quieti ragionamenti tra i quali il Poeta insinua la proposta di declassare o meglio di elevare l’amante al nuovo rango di «sorella». Siamo, evidentemente, alla fine.
In novembre D’Annunzio si confessa a Barbara che ormai sa tutto e tenta di recuperare le sue lettere. Barbara le conserverà invece gelosamente per tutta la sua vita, riducendosi a venderle solo in vecchiaia e per sopperire ai gravi e urgenti bisogni.
Nel 1895, parlando con Gorge Hérelle, traduttore francese del Trionfo della morte, D’Annunzio dice poco generosamente che la protagonista Ippolita Sanzio era veramente esistita e doveva essere identificata in Barbara Leoni, «una donna di mediocre estrazione e di intelligenza comune».
Barbara non tornò più col marito e finì con l’accompagnarsi a un pittore austriaco, che morì suicida nel 1905. Rimasta sola e senza appoggi, passò tempo dopo a convivere con un anziano Consigliere di Stato della Russia Imperiale che viveva a Roma.
Nel 1907 scrisse a D’Annunzio per chiedergli in dono un libro. Il Poeta rispose affettuosamente dalla Capponcina. Da allora non si riesce a trovare tracce di Barbara fino al 1915, quando D’Annunzio è a Roma a suonare il tamburo dell’intervento e lei si fa viva con una lettera per chiedergli di venir utilizzata in opere di assistenza patriottica.
Solo tre anni prima di morire, nel 1935, ormai ripiegato su se stesso, D’Annunzio sentirà il bisogno di sollevare a maggior decoro la figura non volgare di Barbara. Riandando al pensiero al passato, rivivendo «le vaste menzogne le belle frodi le ambigue illusioni» del tempo di Barbarella, la riscoprirà «a lui ridonata dalla tristezza e dalla poesia», e saprà intendere l’importanza spirituale e formativa di quell’amore giovanile. Occupa, la resipiscenza dannunziana nei confronti della Leoni, poche pagine del suo tardivo Libro segreto, passate inosservate al tempo della pubblicazione, nel 1935, quando Barbara per i più non era ormai altro che un nome.
Ma in quello stesso anno il collezionista e dannunziofilo Mario Guabello dà la prima notizia di un grande carteggio tra Gabriele e il suo grande amore, dopo essere entrato in possesso di quasi tutte le lettere scritte da D'Annunzio a Barbara. La donna, ormai vecchia, aveva venduto tutte le sue reliquie: i manoscritti del Giovanni Episcopo e dell’Invincibile, i primi abbozzi di alcune novelle, fotografie inedite e infine le lettere. Nel 1954 Bianca Borletti ne pubblicò 240. Delle altre, ancora inedite, segnano le punte acute di una grande passione e bastano forse per farsi un’idea non ignobile di Barbara.
L’interesse dei critici e la curiosità dei biografi non cessò più intorno alla Leoni, che intanto invecchiava e intristiva in una povera vita. Il 7 aprile 1949 morì, al numero 17 di via Antonio Guattani, nella zona del Fomentano, all’età di ottantasei anni. Era da alcuni anni ospite di un pensionato privato annesso al Conservatorio di Sant’Eufemia e tenuto dalle Suore del Preziosissimo sangue.
Alle «preziosine» e alle vecchie compagne di ricovero non aveva mai parlato dei suoi anni di gioventù, quando la sua rosa faceva languire e morire ripetutamente Gabriele D’Annunzio. Dedita alle pratiche religiose ma non bigotta, passò gli anni della vecchiaia come una donna qualunque.
D’Annunzio nel 1949 era morto da undici anni dopo aver reso, come si è visto, giustizia a Barbarella, che rimane nella sua vita, ingombra di duchesse, di contesse e di grandi artiste, come un’emanazione diretta della parte più genuina che era in lui, nonostante i macabri trionfi cui la piegò nelle trasfigurate spoglie di Ippolita Sanzio e ad onta dei riti paganeggianti che le lettere adombrano, ma che si svolsero in qualche albergo di Rimini, di Venezia, di Albano e in modesti alloggi avuti a prestito dagli amici, tra i polverosi scenari d’un lusso che era solo nella fantasia del Poeta, farneticante di dee e ermafroditi, ma intriso d’amore vero e traversato da un soffio di gioventù e di salute, destinato a scomparire per sempre insieme al volto intenso e dolce di Barbarella, che si ritira nel buio, abbandonandolo a un destino di gloria e di tristezza senza fine.
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