Il pm: "Si contraddice" Amanda scoppia a piangere

Sei ore di interrogatorio per l'americana accusata dell'omicidio dell'amica. L’accusa contesta alla ragazza di aver riferito dettagli della scena del delitto che lei non dovrebbe conoscere

Il pm: "Si contraddice" 
Amanda scoppia a piangere

Roma - L’ultima verità di Amanda Knox si scioglie tra le lacrime. Una crisi di pianto interrompe le sei lunghe ore di interrogatorio della bionda ragazza di Seattle. Di fronte al pm perugino Giuliano Mignini l’americana, indagata con l’ex fidanzato Raffaele Sollecito, l’ivoriano Rudy Hermann Guede e il congolese Patrick Lumumba per l’omicidio della sua coinquilina inglese Meredith Kercher, questa volta, almeno all’inizio, risponde alle domande.

Parla, e lo fa per ribadire la sua innocenza. FoxyKnoxy «ricalca» quanto già affermato nel suo lungo memoriale scritto in carcere, e giura di non aver messo piede nella casa di via della Pergola la sera del delitto. La studentessa ripete di aver passato quella notte a casa di Raffaele e di aver fatto l’amore con lui. Ma anche in questa ricostruzione scivola su qualche contraddizione, rispetto a quando raccontato dal suo ex fidanzato. Lele sostiene infatti di aver passato ore e ore al pc. Lei ricorda solo di aver visto un film con quel Mac, «Il favoloso mondo di Amélie», ma non fa parola delle «navigazioni» notturne sul web che sarebbero invece l’alibi del ragazzo barese. A FoxyKnoxy viene chiesto anche se Meredith è mai stata nella casa di Lele, in corso Garibaldi. Amanda risponde sicura: «No, mai». E a quel punto il magistrato le domanda come sia possibile giustificare le tracce di Dna ritrovate sul coltello da cucina sequestrato a casa Sollecito, un coltello che in procura si ritiene possa essere l’arma del delitto. C’è l’impronta biologica di Amanda sulla lama, vicino al manico, e quella di Mez sulla punta. Ma l’americana non ha una spiegazione. Poi Amanda entra in crisi e, in lacrime, smette addirittura di parlare, quando il magistrato le chiede chiarimenti sulle accuse della prima ora a Patrick Lumumba e su alcuni dettagli relativi alla posizione del cadavere al momento del ritrovamento.
Meredith, accoltellata alla gola, è stata ritrovata sul pavimento della sua stanza, tra il letto e l’armadio, nascosta da un piumone che le lasciava scoperto solo un piede. Quando la porta è stata sfondata, Amanda non era lì vicino, si trovava in cucina. Eppure poche ore dopo, il 2 novembre, in questura una ragazza inglese amica di Mez, Robin, ha sentito l’americana parlare con le altre ragazze straniere che aspettavano di essere sentite dagli inquirenti, mentre si vantava di essere stata lei a ritrovare per prima il corpo. Amanda avrebbe anche fatto cenno delle ferite sul collo della vittima. Dettagli piuttosto precisi, che però l’americana avrebbe dovuto ignorare se davvero non ha mai visto il cadavere.
Quando il magistrato le chiede come mai conosca questi elementi, Amanda appare angosciata, si zittisce, piange e si rifiuta di rispondere. Stesso atteggiamento quando il magistrato le chiede conto delle accuse a Patrick: lacrime e silenzio, ma niente di nuovo. Quanto ai rapporti con Guede, l’unico che, pur dicendosi innocente, al momento ha ammesso di essere presente nel casolare di via della Pergola mentre Mez veniva uccisa, l’americana non fa mistero di conoscerlo. Si erano incontrati nel pub di Lumumba, il Le Chic, mette a verbale, spiegando che però i rapporti con l’ivoriano sono superficiali, e che Rudy per lei è solo un conoscente.
Per la procura, l’interrogatorio di ieri conferma i dubbi sulla ricostruzione della ragazza americana. Per gli avvocati di Amanda, Luciano Ghirga e Carlo Della Vedova, l’esito del faccia a faccia non sposta di una virgola le convinzioni di accusa e difesa: «Amanda ha risposto a tutte le domande, continua a proclamare la sua innocenza mentre la procura la ritiene coinvolta nell’omicidio di Meredith», spiegano i legali lasciando il carcere di Capanne, dove la ragazza è rinchiusa ormai da 40 giorni.
Nel frattempo oggi è previsto un nuovo sopralluogo della scientifica nella casa del delitto, incentrato sull’impronta di scarpa lasciata nel sangue, che gli inquirenti ritengono sia di Sollecito e i difensori di Lele considerano invece non compatibile con le Nike del barese. I cui legali, ieri, hanno presentato ricorso in Cassazione contro la decisione con cui il Riesame ha rigettato l’istanza di scarcerazione per lo studente pugliese.

Diciannove pagine per «smontare» i gravi indizi che giustificherebbero la permanenza dietro le sbarre di Lele, rimarcando proprio l’incertezza nell’attribuzione dell’impronta e la mancanza di altre tracce che leghino il ragazzo alla scena del crimine.

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