Teorici del rigore smentiti dai fatti

Più che una bocciatura, quella delle istituzioni contabili sulla manovra economica sembra una recensione svogliata

Teorici del rigore smentiti dai fatti
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È curioso osservare come, ogni volta che un governo osa mettere mano al bilancio pubblico per restituire qualcosa, si levi immediato il coro dei custodi dell'ortodossia economica: Banca d'Italia, Corte dei Conti, Istat e Ufficio parlamentare di bilancio. Tutti d'accordo, come un'orchestra sinfonica della prudenza, nel decretare che la manovra «non riduce le disuguaglianze», che «favorisce i redditi più alti», che «non incide sulla crescita». Grazie della scoperta. Non è infatti un piano quinquennale socialista, né voleva esserlo, quello varato dal governo Meloni, ma una legge di bilancio cioè uno strumento per tenere in equilibrio i conti e, nei limiti del possibile, raddrizzare qualche ingiustizia.

Il tanto discusso taglio dell'Irpef, che secondo i «tecnici» avvantaggerebbe i più abbienti, è in realtà un intervento di modesta entità e, proprio per questo, equilibrato. Non cambia la vita a nessuno, ma ridà un minimo di respiro a quella fascia di contribuenti la cosiddetta classe media che negli ultimi dieci anni è stata la mucca da mungere di ogni esecutivo. E non è un dettaglio: perché è proprio da lì, dal ceto medio produttivo, che passa la vitalità di un'economia sana.

Fa sorridere poi l'idea che si possa rimproverare al governo di voler riequilibrare i redditi attraverso misure fiscali, per poi invocare la contrattazione collettiva come panacea. Come se quest'ultima fosse oggi un motore efficiente. La verità è che la contrattazione è da tempo ostaggio di un sindacalismo ideologico, più interessato a bloccare che a costruire. Aspettare che la Cgil di Maurizio Landini si svegli per risolvere il problema dei salari sarebbe come confidare nel ritorno delle lucciole per illuminare le città.

Quanto alle perplessità sull'Isee e sulla cosiddetta «rottamazione», qui si rasenta il paradosso. Da un lato si pretende equità e semplificazione; dall'altro si storce il naso non appena si toglie un macigno burocratico o si offre una via d'uscita a chi, spesso per necessità, è rimasto indietro con il fisco. È il solito moralismo dei contabili: nessuna comprensione per la realtà concreta, solo formule e percentuali.

E poi, diciamolo chiaramente: non basta aver recuperato credibilità presso le agenzie di rating e aver convinto i mercati, né il fatto che perfino il Financial Times, dopo The Economist, riconosca all'Italia una serietà di bilancio inimmaginabile fino a pochi anni fa? I professionisti del pessimismo continuano a storcere il naso, come se il successo internazionale fosse un peccato da confessare. A loro non interessa che il Paese sia tornato affidabile: preferirebbero vederlo zoppicare, purché resti conforme ai loro pregiudizi. È la solita sindrome del gufo da scrivania: se l'Italia si rialza, qualcuno perde argomenti.

Sicché, più che una bocciatura, quella delle istituzioni contabili sembra una recensione svogliata. La manovra non entusiasma i teorici del rigore? Bene.

Significa che parla ai cittadini veri, non ai fogli Excel. È un bilancio di prudenza, certo, ma anche di equità e di buon senso. E in tempi in cui la politica economica europea pare oscillare tra austerità e assistenzialismo, non è poco.

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