In Siria, scriveva poche ore fa il Wall Street Journal riportando segnali del tracollo imminente del regime di Bashar al-Assad, la Russia sta vivendo il suo "momento Saigon". Come accadde agli americani in fuga dal Vietnam negli anni Settanta, il Cremlino infatti assiste al fallimento della sua scommessa fatta nel 2015 intervenendo nel Paese mediorientale per puntellare l’alleato siriano e stabilire il suo “posto al sole” nel bacino del Mediterraneo. Per la verità, per la Russia gli eventi delle ultime ore presentano somiglianze con un altro disastroso ritiro spesso menzionato dal presidente Vladimir Putin per annunciare il declino della superpotenza americana: quello degli Stati Uniti dall'Afghanistan a seguito della inarrestabile avanzata dei talebani.
Alla vigilia della caduta del dittatore siriano l’esperta del Carnegie Endowment for International Peace Nicole Grajewski affermava che per l’immagine che la Russia ha di se stessa “sarebbe devastante vedere gli aerei russi lasciare la Siria mentre i ribelli avanzano”. Sulla stessa linea il commento di Anna Borshchevskaya del Washington Institute secondo la quale “perdere la Siria sarebbe una grande sconfitta strategica che avrebbe ripercussioni globali”. Opinioni che rendono ben chiara la portata di quanto accaduto questa notte.
In territorio siriano il Cremlino ha stabilito la base aerea di Khmeimim nella città costiera di Latakia, impiegata come snodo nevralgico per i voli per la Libia, la Repubblica Centrafricana e il Sudan, e la base navale di Tartus. Avamposti ora messi in forte discussione dalla vittoria dei ribelli islamisti.
Intervenendo in Siria lo zar ha cercato di proiettare la sua visione alternativa all’ordine occidentale ponendosi come punto di riferimento in Medio Oriente e in Africa tramite l’organizzazione paramilitare Wagner e, secondo diverse analisi, la dimostrazione di forza a Damasco avrebbe incoraggiato Putin a risolvere una volta per tutte la questione ucraina nel 2022. E proprio l’intervento della Federazione contro Kiev avrebbe distolto dal fronte siriano risorse e mezzi necessari al mantenimento dell'impegno bellico nell'Europa orientale segnando così il destino del regime di Assad.
La “distrazione russa” non è però l’unico fattore che ha determinato il successo dei miliziani islamisti. Anche lo stato di guerra quasi aperta tra Israele e Iran e la decapitazione della leadership dei proxy di Teheran a Gaza e in Libano hanno giocato un ruolo chiave. L’evacuazione dalla Siria di elementi delle Forze Quds, l’unità d’élite delle Guardie della Rivoluzione iraniane accorsa a sostegno dell’alleato, è cominciata già nei giorni scorsi segnalando l’imminenza della fine del regime. “Non possiamo combattere se lo stesso esercito siriano non vuole farlo”, dichiarava al New York Times l’analista iraniano Mehdi Rahmati. Inutile si è rivelata quindi la missione a Damasco compiuta questa settimana dal ministero degli Esteri della Repubblica Islamica Abbas Araghchi.
L'intervento in Siria e le conseguenze della guerra in Ucraina hanno determinato una cooperazione sempre più forte tra Mosca e Teheran contro il nemico comune americano. Adesso i due alleati si trovano dunque a condividere il peso della sconfitta strategica a Damasco da cui al momento sembra trarre qualche beneficio solo la Turchia. La Siria, rivelatasi un regalo di Natale avvelenato per Putin e gli ayatollah, potrebbe infatti configurarsi come una gatta da pelare anche per i Paesi occidentali.
Lo sa bene il presidente eletto Usa Donald Trump, il quale ha affermato che "questa non è la nostra battaglia" e gli Stati Uniti non devono "farsi coinvolgere", lasciando intendere che chi tocca la Siria lo fa a suo rischio e pericolo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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