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"L’urlo Allah akbar, il rogo e gli spari. Io, sopravvissuto a quel massacro"

Il racconto: "La mia famiglia distrutta. I fulani pastori islamisti sanguinari". L’assalto

"L’urlo Allah akbar, il rogo e gli spari. Io, sopravvissuto a quel massacro"
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C’è chi sostiene che la religione non c’entri e che sia «solo» una guerra di pastori per sottrarre ai contadini l’accesso all’acqua limitato dalla siccità. Ma basta parlare con una delle tante vittime del terrorismo islamico per rendersi conto che quella che è in atto in Nigeria è una spietata persecuzione ai danni dei cristiani. Il Giornale ha raccolto la testimonianza di David Ukeyima, uno dei sopravvissuti all’attacco degli islamisti fulani avvenuto lo scorso giugno nel villaggio di Yelwata, nello Stato di Benue. L’atto terroristico ha provocato più di 3mila sfollati e 200 morti tra cui la moglie e i tre figli di David.

Com’era la sua vita prima della tragedia?
«Ero un contadino e uno studente di legge all’università con una moglie e tre figli. Dal 2014 le bande di fulani hanno cominciato a venire nella nostra comunità. Inizialmente li abbiamo accolti, poi però hanno iniziato a diventare aggressivi e da allora siamo stati costretti a vivere nel terrore».

Cos’è successo la notte tra il 13 e il 14 giugno a Yelwata?
«A causa di questa situazione e della paura di incursioni in casa ci eravamo abituati, insieme ad altre famiglie, a trovare riparo in un negozio vicino alla strada del mercato perché la presenza dei vigilanti ci faceva sentire più sicuri. Fuori pioveva molto e verso le 22,45 abNascosti in un negozio: i terroristi hanno dato fuoco all’edificio e sparato su chi fuggiva biamo sentito un gruppo di terroristi avvicinarsi al negozio gridando più volte “Allah akbar”».

Come avete reagito?
«Ho cercato di rassicurare la mia famiglia dicendo che la sicurezza avrebbe evitato il peggio. Ma i terroristi sono penetrati e hanno iniziato a prendere d’assalto le 16 stanze del negozio. Non potevo immaginare che avrebbero cosparso tutto di benzina e dato fuoco all’edificio. Così abbiamo cercato di scappare, chi dalle finestre e chi dal tetto, ma i terroristi da fuori hanno iniziato a spararci addosso e hanno fatto a pezzi chi fuggiva».

Cos’è successo alla sua famiglia?
«Appena ho fatto un passo fuori dal negozio in fiamme mi hanno sparato alla spalla sinistra. Poi hanno colpito i miei tre figli alla schiena. Li ho visti morire davanti ai miei occhi. L’attacco è durato più di due ore e quando è finito mi hanno portato in un dormitorio dove ho scoperto che anche mia moglie Judith era stata uccisa a colpi di pistola».

Pensi che vi abbiano attaccato in quanto cristiani?
«Sì. Non a caso hanno scelto di attaccare una comunità dove non c’era alcun musulmano: eravamo tutti cristiani. E poi durante l’assalto gridavano “Allah akbar” proprio per evidenziare la differenza tra noi e loro, tra islamici e cristiani.
Chi nega questo fattore religioso negli attacchi che subiamo da anni lo fa per un suo interesse personale».

Oggi com’è la sua vita?
«Vivo in un campo di sfollati con altre 6.749 persone. Non è facile perché gli spazi sono piccoli: nella mia stanza dormiamo in 15 e ci sono anche alcune mamme che allattano sul pavimento».

E lei come sta?
«Soffro ancora per le ferite fisiche, ma ho ritrovato la fede. Nel preciso momento in cui la mia famiglia veniva sterminata ho sentito dentro di me che forse Dio non c’era. Ero disperato e non sapevo cosa farmene della mia vita. Mi dicevo che se Dio fosse esistito nulla di simile sarebbe successo. Poi però grazie al sostegno delle suore e dei sacerdoti della diocesi di Makurdi ho capito che Dio esiste e rendo gloria a lui anche per gli aiuti umanitari destinati ai nostri campi dall’amministrazione americana».

Siamo reduci dal raid americano contro gli jihadisti.

Le sta piacendo la posizione del presidente Trump sul dramma di voi cristiani nigeriani?
«Apprezzo la vicinanza dimostrata in questi mesi dal presidente Trump perché questi attacchi contro noi cristiani vanno avanti da troppo tempo. Vorremmo ritornare nelle nostre terre e riprendere a lavorare le nostre fattorie. Siamo contadini e vorremmo soltanto continuare a fare quello che facevamo prima».

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