Il nuovo rodeo del Tycoon

Trump non si smentisce. Alza la posta, cambia le regole, impone la sua narrativa come fosse l’unica possibile e poi fa un’altra giravolta

Il nuovo rodeo del Tycoon

C’era un tempo in cui la diplomazia commerciale somigliava a una partita di scacchi. Oggi, con Donald Trump tornato alla Casa Bianca, somiglia più a un rodeo.

L’ultima tornata di dichiarazioni incendiarie del presidente americano rischia di mandare in frantumi ogni illusione residua su una normalizzazione dei rapporti transatlantici. Dazi del 250% sui farmaceutici europei, minaccia di alzare dal 15% al 35% le tariffe da poco concordate se l’Europa non investirà 600 miliardi in breve tempo in attività americane: un ricatto economico in piena regola, con il fragile velo della diplomazia ridotto a coriandoli.

Trump non si smentisce. Alza la posta, cambia le regole, impone la sua narrativa come fosse l’unica possibile e poi fa un’altra giravolta. Ma può l’Europa permettersi il lusso dell’attendismo? Perché se la politica vive anche di tregue tattiche, l’economia industriale e le catene del valore non possono navigare a vista, inseguendo gli umori mutevoli di chi dovrebbe rappresentare un punto fermo nell’Occidente.

Lo abbiamo visto con chiarezza nella recente «pace scozzese», quella che avrebbe dovuto scongiurare la tempesta commerciale tra Europa e Stati Uniti e che invece si è rivelata per quello che era: un compromesso di corto respiro, utile più a salvare la faccia che a garantire una prospettiva. Come avevamo scritto allora, si trattava di una tregua, non della pace. E i fatti ci stanno dando ragione. A mo’ d’esempio, le esportazioni farmaceutiche europee verso gli Stati Uniti valgono circa 120 miliardi di euro l’anno. Un dazio del 250% vorrebbe dire, nella pratica, dimezzare la competitività del settore, colpendo duramente Paesi come Germania, Belgio, Olanda e anche l’Italia. Il paradosso è evidente. Da un lato, Trump chiede all’Europa un allineamento sempre più netto anche in campo industriale ed energetico. Dall’altro non esita a colpirne i settori più competitivi con condizioni capestro che ricordano le vecchie logiche coloniali. L’idea che l’Europa possa subire in silenzio tutto questo somiglia tanto a una strategia suicida. E dunque, invece di congelare il famoso pacchetto di controdazi di 93 miliardi predisposto in vista di scenari simili, perché non cominciare a dispiegarlo? Nato come misura di deterrenza, oggi deve diventare una leva di pressione. Se Trump vuole tornare al protezionismo aggressivo, l’Europa deve essere pronta a dare risposte che incidano in qualche modo. Non per spirito di ritorsione, ma per difendere la propria autonomia strategica. Siamo davanti a una logica del ricatto economico che si fa beffe di ogni regola multilaterale. E c’è un altro paradosso che grida vendetta: mentre Washington pretende che l’Europa investa 600 miliardi nelle attività industriali americane, il Congresso Usa vota sussidi miliardari a favore della manifattura interna, con clausole che penalizzano proprio le aziende europee.

Perché allora quei 600 miliardi, invece di essere gettati come moneta di fedeltà sul tavolo americano, non vengono dirottati su un ambizioso piano di rilancio tecnologico europeo?

Il gap con Stati Uniti e Cina è oggi più ampio che mai: basti pensare che solo nel 2024 Pechino ha investito quasi 300 miliardi di dollari in Intelligenza Artificiale, cloud e semiconduttori, mentre l’Europa, divisa tra veti incrociati e lentezze regolatorie, resta al palo. Qui entra in gioco anche il nodo della Minimum Global Tax e della Digital Tax. Il progetto di tassazione globale delle multinazionali è fermo, impantanato tra rinvii e pressioni americane. Ma, come ha ricordato Mario Monti, una digital tax europea è ancora possibile, e anzi necessaria.

L’obiezione è nota: colpire le big tech significa rischiare ritorsioni. Ma è davvero credibile che Google, Apple, Meta o Amazon decidano di staccare la spina e abbandonare un mercato - come è quello dell’Europa allargata - di 500 milioni di consumatori?
Sarebbe un autogol clamoroso anche per loro: gli utili realizzati grazie alle attività europee parlano chiaro. E poi: possiamo davvero continuare a concedere extraterritorialità fiscale alle multinazionali americane mentre veniamo minacciati di dazi fuori misura?
Il quadro, insomma, è chiaro.

Trump gioca la carta del protezionismo, consapevole che l’America, per ora, può ancora permetterselo. Ma gli effetti a lungo termine sono già visibili anche in casa sua: aumento dell’inflazione, tensioni sulle supply chain, incertezza per gli investitori, blocco dei programmi aziendali. Anche gli Stati Uniti, presto, pagheranno il prezzo di questa strategia. E non solo in termini economici: anche in termini di credibilità internazionale. La vera domanda, però, è una sola: l’Europa è pronta a cambiare passo? Perché se continuiamo ad agire in ordine sparso, se Bruxelles resta prigioniera delle sue timidezze, se i governi nazionali antepongono gli interessi elettorali a quelli strategici, Trump avrà già vinto.

Non con i dazi, ma con la divisione

del fronte europeo. Il tempo delle tregue è finito.

Serve una risposta. Serve una strategia. E serve, finalmente, il coraggio politico di dire no: non a Trump, ma a una visione del mondo in cui l’Europa gioca solo in difesa.

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