
Non è un gran momento, questo, per diritto, giudici e corti di giustizia. Le relazioni internazionali corrono più che mai sul binario della forza, dall'Ucraina a Gaza all'Iran, senza minimamente curarsi neanche per ipocrisia di norme e tribunali. Nella più antica democrazia del mondo, gli Stati Uniti, è in corso un duro conflitto fra i poteri, e non è detto che il giudiziario la spunti sull'esecutivo. È una dinamica pericolosa, non c'è alcun dubbio: non solo un ordine liberale non può fare a meno dello Stato di diritto, ma anche nei rapporti fra le nazioni dev'esserci un minimo di struttura normativa se non altro per rendere il Pianeta un po' meno invivibile e incivile. Se vogliamo fronteggiare questa dinamica con qualche chance di successo, d'altra parte, dobbiamo comprenderne le origini. Cercando magari di non fermarci pigramente a Donald Trump, che ne è una conseguenza o sintomo, ma non certo una causa.
L'espansione, graduale ma continua, del diritto e delle corti di giustizia a partire dagli anni Settanta rappresenta «uno dei fenomeni più significativi verificatisi nella sfera pubblica fra la fine del Ventesimo e l'inizio del Ventunesimo secolo», ha scritto il giurista canadese Ran Hirschl. A tal punto che, hanno aggiunto due altre studiose, Erin Delaney e Rosalind Dixon, la nostra epoca «potrebbe ben essere definita l'Era della Giurisdizione». Qui, di quest'espansione, non possiamo che portare qualche esempio fra i tanti possibili. Da almeno mezzo secolo, innanzitutto, i diritti individuali, civili e sociali, si sono venuti moltiplicando, e se n'è molto rafforzata la protezione nazionale e internazionale. Se nel 1946 le costituzioni del mondo riconoscevano in media 19 diritti di 56 teoricamente possibili, sessant'anni dopo ne tutelavano 33. Sempre in quest'ambito, fra il 1979 e il 2006 sono state approvate sei nuove convenzioni sotto l'ombrello dell'Onu, mentre in America, Africa ed Europa sono stati stipulati nuovi trattati e sono nate nuove istituzioni regionali, o si sono irrobustite le vecchie.
Il proliferare dei diritti, in secondo luogo, ha contribuito ad allargare gli spazi del potere giudiziario. Che, nel frattempo, sono cresciuti anche per altre vie. Di venticinque corti internazionali create fra il 1945 e il 2006, con le funzioni più disparate, tre sono nate prima del 1960, due negli anni Settanta, una negli Ottanta e diciannove dopo il 1992. Sempre più «assediati» dall'esterno, inoltre, all'interno gli Stati nazionali hanno visto rafforzarsi progressivamente il controllo di legittimità costituzionale che, se nel 1946 era presente in poco più di un terzo dei Paesi del mondo, sessant'anni dopo lo era quasi nel novanta per cento. Nel frattempo le amministrazioni pubbliche sono state anch'esse sottoposte a uno scrutinio sempre più stringente, esercitato o direttamente dalla magistratura oppure dagli organismi indipendenti, giudiziari o quasi-giudiziari, che sono venuti nascendo negli ultimi decenni.
A completare il quadro, infine, logiche e gergo giuridici si sono diffusi anche in ambiti non giuridici, mentre l'opinione pubblica si è convinta che ogni sua richiesta, anche la più utopica, potesse essere esaudita dal potere giudiziario. Lo notava già nel 1971, ironicamente, la giudice statunitense Shirley Hufstedler: «Vogliamo che i tribunali difendano le libertà personali, sciolgano le tensioni razziali, mettano la guerra fuorilegge e spazzino via dal globo gli agenti inquinanti... ci proteggano dalle malefatte pubbliche e dalle tentazioni private... resuscitino le nostre aziende moribonde, ci proteggano prima della nascita, ci sposino, ci divorzino, e, se non proprio ci seppelliscano, quanto meno badino che le spese del funerale siano pagate». Di fronte a tutto questo, non possiamo certo meravigliarci se i giudici tendono sempre di più a insediarsi in terreni altamente politici come quelli della gestione dei processi elettorali, della programmazione macroeconomica, della tutela della sicurezza nazionale, a tal punto che scrive ancora Ran Hirschl «negli ultimi decenni il mondo si è trovato davanti a un radicale trasferimento di poteri dalle istituzioni rappresentative a quelle giudiziarie, nazionali o sovranazionali».
L'espansione storica del diritto e delle corti di giustizia ha portato fuori equilibrio la democrazia liberale. Che, se certo non può esistere senza Stato di diritto, non può sopravvivere nemmeno quando le norme e le corti comprimono in misura eccessiva la politica e la sovranità popolare, com'è senza dubbio accaduto negli ultimi decenni e sta accadendo ancora. Quello che oggi viene considerato un attacco al potere giudiziario non è altro che il tentativo della politica di recuperare almeno una parte dello spazio che le è stato sottratto dagli anni Settanta a oggi, allora. È un processo fisiologico e anche benefico, ma come si diceva all'inizio porta con sé pure il rischio concreto che si passi da un'esagerazione all'altra. Evitare un eccesso di reazione tocca prima di tutto alla politica. Ma una parte di responsabilità cade pure sugli esponenti dell'ordinamento giudiziario e sui loro difensori. Ricostruire una politica che goda di autonomia e discrezionalità in misura sufficiente da poter affrontare le sfide storiche e rispondere alle richieste degli elettori, e che quindi sia controllata ma non intralciata o paralizzata dal diritto e dalle corti, è oggi un'urgenza assoluta. Che è imposta a tutti gli Stati da un fattore esterno: un quadro internazionale che si va facendo sempre più anarchico e pericoloso. Sarebbe meglio per tutti se gli esponenti dell'ordinamento giudiziario partecipassero, insieme alla politica, alla ricostruzione dell'equilibrio democratico. Dovrebbero accettare di perdere del potere, ma potrebbero pure evitare che si oscilli da un eccesso all'altro.
Sarebbe invece assai dannoso se si chiudessero a difesa del mondo di ieri. Dannoso in generale ma innanzitutto per loro, perché si priverebbero di qualsiasi possibilità di partecipare alla costruzione di un mondo di domani che, piaccia o non piaccia, sembra comunque destinato ad arrivare.