Politica estera

Taiwan sceglie l'indipendentismo: cosa cambia ora tra Cina e Usa nel Pacifico

La vittoria di William Lai nelle elezioni presidenziali non sembra aver cambiato le carte nello scenario del Pacifico. Cina e Stati Uniti, i due principali attori dell'area, paiono intenzionati a proseguire sulle loro linee

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Non si è fatta attendere la risposta della Cina alla vittoria dell’indipendentista William Lai nelle elezioni presidenziali a Taipei. Il portavoce dell’Ufficio per gli affari di Taiwan Chen Binhua ha dichiarato che Pechino non tollererà “attività separatiste” e che la riunificazione dell’isola con la madrepatria è inevitabile. Una postura aggressiva, dunque, ma in linea con quella degli anni precedenti, così come lo è stata la reazione degli Stati Uniti.

Il presidente Joe Biden ha infatti ribadito che “non sosteniamo l’indipendenza” di Taiwan, un segnale del fatto che a Washington guardando ancora al principio dell’”ambiguità strategica” per evitare l’esplosione delle ostilità tra Pechino e Taipei. Da decenni, la Casa Bianca ammette l’esistenza di “una sola Cina”, riconosce solamente il governo del Partito comunista e non ha un’ambasciata nell’isola. In base al Taiwan Relations Act del 1979, però, fornisce armi all’esercito taiwanese e spesso le portaerei americane hanno sfilato nello stretto che separa il Dragone dalla “provincia ribelle”. I vari governi Usa, inoltre, non hanno mai chiarito formalmente come reagirebbero in caso di un’invasione di Taiwan da parte della Repubblica popolare. Questa strategia è studiata per evitare sia un’azione militare cinese, sia una dichiarazione d’indipendenza da parte di Taipei che scatenerebbe inevitabilmente il conflitto.

Da parte sua, Pechino affianca ai proclami sulla riunificazione una continua pressione militare, con esercitazioni a fuoco vivo di marina e aviazione nei dintorni dell’isola, voli di cacciabombardieri che fanno scattare gli allarmi di difesa aerea taiwanesi e il periodico invio di task force navali, come successo alla vigilia delle elezioni. Anche Xi Jinping, però, fa uso di una certa ambiguità, in particolare per quanto riguarda possibili scenari di scontro armato rilanciati dai giornali di regime e il modo in cui intende ottenere la sottomissione dell’isola, che passa dal non escludere l’opzione militare alla via pacifica “per il bene dei compatrioti taiwanesi”. A poche ore dalla vittoria di Lai, dunque, il palcoscenico del Pacifico sembra restare invariato e i suoi due attori protagonisti, Cina e Stati Uniti, paiono destinati a ripetere le stesse battute già sentite nel corso degli anni.

A differenza del passato, però, il mondo guarda con particolare preoccupazione a questa zona di “guerra fredda”. I conflitti in Ucraina e Medio Oriente hanno alzato i livelli d’allerta della comunità internazionale per possibili avventure simili da parte di Stati che hanno contenziosi aperti con i propri vicini. Lo scontro aperto tra Cina e Taiwan avrebbe però conseguenze disastrose sia per i due Paesi coinvolti, con una previsione del crollo del Pil rispettivamente del 40% e del 16.7%, sia a livello globale. Taipei, infatti, è il leader mondiale nella produzione di semiconduttori ad alta tecnologia, componenti presenti ormai in ogni oggetto tecnologico di uso quotidiano.

Un prezzo così alto da pagare per restituire al Dragone la sua ultima squama potrebbe essere l’ostacolo che Xi Jinping non oserà oltrepassare.

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