
È arrivato alla Casa Bianca promettendo di contrastare la Cina a livello globale. Ma la promessa, come tante altre messe sul tavolo da Donald Trump, sembra già finita nel dimenticatoio. O vanificata da visioni spesso incoerenti. Tra queste vi è la conferma della decisione, già assunta nel 2017 durante il primo mandato, di abbandonare l'Unesco l'organizzazione Onu per l'educazione, la scienza, la cultura, la comunicazione e l'informazione. Le motivazioni di Trump, ovvero risparmiare i dollari versati a chi promuove l'estremismo woke o posizioni «anti-americane» e «anti-israeliane«, possono sembrare sensate. Ma rischiano di rivelarsi un autogol perché consentono a Pechino di sfruttare al meglio un «soft power» importante, a livello globale, quanto il potere militare ed economico. Soprattutto se l'obbiettivo è l'egemonia culturale.
Per capirlo basta pensare ai film di Hollywood, al mito dell'on-the-road e a simboli come la Grande Mela. Per decenni quelle icone hanno contribuito a rafforzare l'idea di un'indiscussa egemonia globale americana. Un'egemonia a cui la Cina sta dando la scalata sfruttando al meglio l'addio Usa a quella fabbrica di icone culturali, educative e turistiche rappresentata dall'Unesco. Dal 2017 ad oggi Pechino è riuscita, sfruttando anche le proprie disponibilità finanziarie, a imporre Xing Qu come vicedirettore del settore generale e ad usare l'Unesco per promuovere, località e iniziative presenti nel programma della Via della Seta. Ma ha anche usato il controllo dei vertici Unesco per appoggiare gli alleati africani e rafforzare la posizione di potenza leader all'interno del Continente Nero.
In tutto ciò la prima a farne le spese rischia di essere l'Italia, ovvero uno degli alleati più vicini a Trump in campo europeo. Pechino è, infatti, impegnata in una spregiudicata lotta per conquista dei cosiddetti Patrimoni dell'Umanità, ovvero siti e iniziative a cui l'Unesco riconosce un «eccezionale valore culturale, storico, naturale o scientifico». In questa gara il principale concorrente è un'Italia che fin qui ha sempre guidato la classifica dei paesi con il maggior numero di «patrimoni» riconosciuti. Una classifica dal valore miliardario in termini di turismo e iniziative culturali. Ora invece la Cina, forte di 60 siti, è a un passo dall'agganciare un'Italia rimasta in testa solo grazie all'inclusione delle «Domus de janas» sarde come 61° sito.
Il problema è però l'arbitrarietà con cui la Cina riesce a farsi riconoscere patrimoni culturali che in base alle regole Onu difficilmente potrebbero appartenerle.
Tra tutti il palazzo del Dalai Lama nella capitale tibetana occupato da Pechino nel 1950 e trasformato in «patrimonio culturale» del Dragone grazie a due padiglioni in puro stile cinese affiancati alla tradizionale architettura tibetana.