
Donald Trump è stato eletto per rifare grande l’America, non l’Occidente. La lettera che il presidente ha inviato ieri a Ursula von der Leyen per annunciare l’imposizione di un dazio del 30 per cento sulle merci europee esportate negli Stati Uniti lo dimostra una volta di più. Certo, siamo di fronte all’ennesima mossa negoziale e possiamo sempre sperare che la contrattazione si chiuda infine su una tariffa più bassa. Il messaggio di fondo resta chiaro, però: l’Europa non può appellarsi alla solidarietà transatlantica per avere a priori un trattamento migliore degli altri.
Per il Vecchio Continente, per l’Italia e per il governo Meloni, la notizia è pessima. Fin dal suo viaggio negli Stati Uniti dello scorso aprile, la presidente del Consiglio ha insistito nell’adottare un approccio occidentalista, nel cercare di convertire lo slogan trumpiano «Make America Great Again» in «Make the West Great Again».
Anche ieri, reagendo alla missiva della Casa Bianca, Palazzo Chigi ha seguito questo copione, dichiarando di confidare «nella buona volontà di tutti gli attori in campo» perché si arrivi «a un accordo equo, che possa rafforzare l’Occidente nel suo complesso». Ma la vicenda dei dazi segna tutta la distanza fra i due slogan, fra l’America e l’Occidente. Mette in difficoltà Meloni da un punto di vista simbolico e comunicativo e, più seriamente ancora, ne ostacola i rapporti anche elettorali con il mondo produttivo, che finora non l’ha guardata certo con ostilità. Mostrando quanto sia difficile difendere la sovranità di un Paese esportatore, in definitiva, questa vicenda porta alla luce lo snodo forse più debole del progetto politico di Fratelli d’Italia. Questo quadro relativamente semplice e negativo si complica, d’altra parte, se consideriamo la posizione che Trump ha assunto da ultimo contro la Russia e in difesa dell’Ucraina. Sì, non è una posizione definitiva, sul conflitto europeo il presidente ha oscillato di continuo. E dobbiamo ancora attendere le grandi novità che ha annunciato per domani. Ma per il momento la direzione sembra esser quella di un maggiore impegno americano a difesa di Kiev. Ossia dell’Europa. Ossia, in fin dei conti, dell’Occidente. Il quadro più complicato ci manda due messaggi, allora. Il primo è che gli interessi statunitensi e quelli dell’alleanza transatlantica non coincidono in via automatica, ma non è nemmeno obbligatorio che divergano. Il trumpismo potrebbe essere lo strumento attraverso il quale, in maniera quanto mai confusa e contraddittoria, l’America si sta interrogando sul proprio ruolo in un mondo che l’ascesa delle potenze extra -occidentali sta modificando in profondità. Il secondo messaggio è che questa interrogazione, pur essendo ben lontana dalla conclusione, pare si stia orientando verso una possibile risposta: l’amministrazione Trump si starebbe rendendo conto di non poter rinunciare a svolgere il ruolo della superpotenza militare globale, in Europa orientale così come in Medio Oriente, ma vuole per lo meno dimostrare all’opinione pubblica americana che il costo dello sforzo toccherà a qualcun altro.
In questa lettura gli Stati Uniti non rifiutano la leadership dell’Occidente, insomma, ma ne pretendono duramente il prezzo: ecco il punto d’incontro fra «Make America Great Again» e «Make the West Great Again».
Se vuole avere un minimo di forza negoziale e non subire del tutto le imposizioni americane, l’Europa deve rafforzarsi con la massima velocità: diventare più competitiva, meno dipendente dalle esportazioni, più autonoma strategicamente. Se questi obiettivi non sono in discussione, il problema però è che cosa fare nel tempo non breve che serve a raggiungerli.
Presentatosi drammaticamente impreparato alla sfida storica trumpiana, il Vecchio Continente non ha altra scelta che negoziare meglio che può da posizioni di debolezza, cercando di evitare per quanto possibile (ma dubito che lo sarà, purtroppo) sia il servilismo sia il velleitarismo.