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Addio Ostellino. Argine liberale al marxismo

Ostellino era come la sua storica rubrica: dubbioso, un pensatore senza ideologie, un uomo che metteva sempre in discussione e in verifica le proprie convinzioni. Coltivava il dubbio, come solo una persona libera può e sa fare

Addio Ostellino. Argine liberale al marxismo

L'attitudine più straordinaria di Piero Ostellino era la sua capacità di non farsi contaminare. Chi ha avuto la fortuna e il privilegio di conoscerlo, come il sottoscritto, è stato sempre affascinato da questa sua caratteristica: se ne infischiava di ciò che si diceva intorno a lui. Se ne infischiava dei salotti che frequentava; pochi peraltro. Se ne infischiava di essere uno dei pochi liberali in circolazione nel «Corrierone» normalizzato. Ostellino era come la sua storica rubrica: dubbioso, un pensatore senza ideologie, un uomo che metteva sempre in discussione e in verifica le proprie convinzioni. Coltivava il dubbio, come solo una persona libera può e sa fare.

Se ne è infischiato dell'influenza marxista, sinistra e sovietica della Russia dove giovanissimo fu spedito dal Corriere. Non è mai stato vittima del pregiudizio. Difese Berlusconi, proprio lui che non lo amava più di tanto, sulla vicenda Ruby. Ma in realtà non difendeva Berlusconi, difendeva Locke, Montesquieu, il pensiero liberale. In più di un'occasione, senza grandi accenti polemici, ci confidava la frustrazione di essere visto dai suoi colleghi di banco come un berlusconiano, per il solo fatto di aver voluto difendere un principio. «Io non scrivo a gettone - ci diceva - e chi pensa così, evidentemente così si comporta. A me non interessano i dettagli - aggiungeva - importano i principi».

Ovviamente delle critiche se ne infischiava. E per quel principio avrebbe difeso anche il suo peggior nemico. Aveva un timore folle del ruolo della magistratura nella nostra democrazia. E lo scriveva senza sosta. Il complimento più bello che potesse fare era: «Sei di buone letture». Amava i liberali classici, gli inglesi e poi gli austriaci. Diffidava degli illuministi, così come degli egalitari della rivoluzione francese. Eppure appena poteva scappava in campagna proprio in Francia, a due passi da Saint Tropez, in quelle colline isolate ma bellissime che precedono e vedono la Costa Azzurra.

Ha fatto per tre anni il direttore del Corriere della Sera, ma fingeva di essersene dimenticato. Cosa che riusciva benissimo anche ai colleghi di casa sua. È stato Alessandro Sallusti che con abilità lo ha corteggiato e lo ha portato nel nostro Giornale. Che è stata la sua casa: quando è arrivato tre anni fa, ma anche quando era a via Solferino. Amava il Corriere e si disperò, a modo suo si intende, quando i nuovi proprietari vendettero il palazzo. Cambia nulla per voi, qualcuno di noi provò ad obiettare. «Le nostre radici contano» fu la sua risposta secca. Una magnifica sintesi di pragmatismo e libertà, tradizioni e progresso. Era il suo liberalismo. Quello che lo ha sempre contraddistinto. Uno dei pochi giornalisti che ha sempre mantenuto intatto il suo pensiero, non è sceso a compromessi sui principi, ha trattato solo sui dettagli.

Ha conquistato la sua libertà ogni giorno. L'ha rosicchiata pezzo per pezzo. L'ha rivendicata anche quando là fuori tutto cospirava contro di lui. È stato un grande giornalista, un suggeritore prezioso, una lettura indispensabile.

È un orgoglio pensare che la nostra modesta firma sia comparsa con la sua nella medesima pagina di un Giornale.

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