Beatrice è il volto della nuova musica

Nei teatri oggi è essenziale portare il pubblico in sala. Ecco perché indignarsi non ha senso

Beatrice è il volto della nuova musica

Due cose non si possono fare: trattare un direttore artistico come se fosse solo un manager da spoil system (da sostituire come un prefetto) e illudersi che un direttore artistico viva comunque in un limbo apolitico, come se i teatri d'opera non sopravvivessero grazie a fondi statali e nomine calate dall'alto. Una terza cosa che non si può fare (e che invece si fa) è raccontarsi che in questo pianeta sia cambiato tutto, compresa la politica e il giornalismo, ma la direzione d'orchestra invece no, macché, è sempre la stessa che pure era vecchia cinquant'anni fa: raccontarsi, quindi, che certa presenza sul podio incarni ancora il genio demiurgico del passato e che non gli si chieda, invece, oggi, di garantire un repertorio che porti la gente a teatro, rinnovi gli abbonamenti e aiuti a contenere i disavanzi di un'attività museale. Proprio così, museale. Su questa base, ecco, possiamo anche discutere il "caso" di Beatrice Venezi, neo direttrice del teatro La Fenice di Venezia (dall'ottobre 2026) per decisione della Fondazione del teatro e del sovrintendente Nicola Colabianchi.

Messa così, la discussione torna all'oggi e non al mondo trapassato in cui, nei giorni scorsi, circolavano dei volantini con scritto "La musica è arte, non intrattenimento", roba che ricordava quanto raccontava Riccardo Muti a Philadelphia dal 1981 al 1992, quando i giornali relegavano le recensioni dei suoi concerti nella pagina degli "intrattenimenti" e a lui non piaceva: "Come se la musica", diceva, "fosse il mezzo di passare bene una serata". Muti, mezzo secolo fa, aveva diritto di dirlo: oggi la musica invece è questo, un modo di passare bene una serata. Lo scrive, nota personale, chi decenni fa andava ai Festival di Bayreuth (Franconia tedesca, 10 anni d'attesa per un biglietto) che per atmosfera mistica faceva sembrare il pellegrinaggio alla Mecca una scampagnata.

Ancora oggi c'è chi parla di "arte" o del concetto di "interpretazione" di Theodor Adorno, o cerca di ridurre il caso Venezi a una "questione tecnica": lo scrivono ex critici musicali della Stampa che oggi sono ridotti a commentare Sanremo: perché il mondo è cambiato. Il mondo della musica poi è cambiatissimo, e non da oggi, e non solo in Italia. Valery Gergiev, noto per il gesto slabbrato e la tendenza ad azzerare le prove, è stato il caso più vistoso di direttore che c'era più di quanto faceva; Sergiu Celibidache, negli anni della mitizzazione, costruiva sinfonie interminabili più per un'idea filosofica che per un lavoro interpretativo: l'orchestra lo seguiva e il pubblico lo venerava, ma la sua direzione era più contemplazione che scavo. Lorin Maazel, in tanti suoi concerti, si limitava a garantire tempi esatti e pulizia d'attacco, ciò che il 90 per cento del pubblico è solamente in grado di cogliere oggi. Lo svedese Herbert Blomstedt, novantottenne, ha fatto dell'affidabilità la propria cifra: entra, dirige con chiarezza e non sbaglia né rischia mai. Seiji Ozawa, più elegante che incisivo, ha spesso dato l'impressione di lasciare all'orchestra la responsabilità del suono. E persino Riccardo Chailly, nelle sue stagioni scaligere, ha mostrato una disciplina poco incline alle sbavature, ma pochi di quei colpi d'ala che un tempo dividevano il pubblico e la critica. Dettaglio: oggi pubblico e critica non contano più nulla, a meno che si parli del numero di abbonamenti.

Con il che, domanda: vogliamo forse paragonare Beatrice Venezi a Gergiev, Celibidache, Maazel, Chailly e gli altri? No, nemmeno minimamente. Ma questo non toglie, oggi, che una Venezi accusata di dirigere "come un metronomo" non inventerebbe nulla, perché riporterebbe in superficie un filone che l'orchestristica internazionale conosce bene. E qui osiamo citare la Staatsoper di Vienna coi suoi Wiener Philharmoniker che da sempre sono considerati un corpo sonoro capace di suonare da solo: talmente coeso e autosufficiente che il direttore ha un ruolo più cerimoniale che sostanziale. Chi dirige i Wiener si adatta alle bacchette, non viceversa, e il direttore-demiurgo evapora da sempre: con il che, domanda: vogliamo forse paragonare l'orchestra della Fenice ai Wiener? È una domanda che l'Orchestra di Venezia si merita tutta.

Detto questo, Beatrice Venezi non è una bacchetta famosa nel mondo: ma ciò che rendeva le bacchette famose nel mondo, oggi, serve a poco, e garantisce anche meno. Tanti immensi e celebrati nomi, in passato, sono stati accusati proprio di quello che tanti faziosi incompetenti (sui giornali) stanno rimproverando a lei, ossia di non interpretare, dirigere "a tempo", ridurre le orchestre a macchine perfette, anzi meglio, a "orchestre tutte uguali come un menù alberghiero", diceva ancora Muti mezzo secolo fa: e sono le orchestre di oggi, quando va bene.

I venerati maestri, coi loro curricula ormai inservibili, nessuno osa ancora metterli in discussione: ci si sfoga contro le Venezi che hanno pure l'aggravante di amicizie poco in linea. Tutti, naturalmente, hanno il diritto di sostenere che qualcuno non debba dirigere un'orchestra: possono dirlo, ma non possono più deciderlo. Quel tempo è finito.

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