
Con 1025 giorni di vita, il governo Meloni diventa il quarto governo più longevo della storia della Repubblica italiana. Davanti restano soltanto due governi Berlusconi e il primo governo Craxi. Un traguardo che ci dice che la tanto bistrattata Seconda Repubblica, spesso accusata (anche) di instabilità, ha in realtà prodotto esecutivi mediamente più solidi e longevi rispetto alla Prima: circa 11 mesi di media nella Prima Repubblica, contro 1 anno e 8 mesi nella Seconda.
Nella Prima Repubblica, si sa, i governi duravano poco per ragioni strutturali. Lo scontro ideologico, il sistema elettorale proporzionale puro, il "multipartitismo polarizzato" teorizzato da Sartori, con una rappresentanza parlamentare frammentata e coalizioni ampie e fragili. Gli esecutivi nascevano da compromessi delicati e cadevano non appena si rompeva l'equilibrio politico. A questo si aggiungeva il peso delle correnti interne ai partiti. Eppure, pur essendo instabili, quei governi disponevano di strumenti oggi impensabili: dai monopoli pubblici (telefonia, poste, energia, ferrovie, autostrade, ecc.) alla moneta, dalla Banca d'Italia sotto il controllo dell'esecutivo alla scala mobile che agganciava i salari all'inflazione. Erano leve che permettevano di incidere direttamente e pesantemente sulla vita dei cittadini. La Prima Repubblica era, per usare una metafora, una macchina potente ma con continui cambi di guidatore. Governi brevi e frequenti rimpasti rendevano difficile portare a termine riforme strutturali. Lo scenario poi si è rovesciato. Le riforme istituzionali, i partiti post-ideologici e la personalizzazione della leadership hanno rafforzato la durata degli esecutivi, ma le leve interne si sono ridotte. L'adozione dell'euro ha tolto il controllo diretto della politica monetaria, i vincoli di bilancio europei limitano la spesa pubblica e la globalizzazione ha, da un lato, spostato il baricentro del potere verso mercati e attori privati, dall'altro ampliato di parecchio la platea dei competitor internazionali. Per i governi nazionali, questo significa che molte decisioni cruciali si prendono altrove e che la capacità di incidere dipende sempre più da come ci si muove in questi contesti. La perdita di leve interne e l'ascesa di attori globali costringono gli esecutivi a "giocare la partita" in ambiti nei quali la stabilità è un vantaggio competitivo. In questo scenario, restare al timone abbastanza a lungo permette di consolidare relazioni, accumulare credibilità e seguire dossier complessi senza ripartire ogni volta da zero. È così che si gestiscono, per esempio, i piani europei sull'energia, la riforma delle politiche migratorie, il piano di difesa europea o l'attuazione del Pnrr. Servono continuità, memoria istituzionale e coerenza negoziale.
Sempre Sartori ricordava che "avere governi stabili non significa automaticamente avere anche governi efficaci". Ma nel contesto attuale, europeo e globale, la stabilità può diventare essa stessa una forma di efficacia, ossia un capitale politico da spendere sui tavoli internazionali, nei quali affidabilità e continuità contano tanto quanto le scelte di merito.
E proprio qui sta una delle abilità di Giorgia Meloni, quella di aver saputo trasformare la durata del suo governo in un asset spendibile all'estero. La continuità a Palazzo Chigi le ha permesso, ad esempio, di presentarsi ai vertici internazionali come interlocutrice stabile, con una linea di politica estera coerente nel tempo.
Non solo resistere, quindi, ma usare il tempo come leva strategica per dare continuità all'azione internazionale e peso alla presenza italiana nei luoghi dove oggi si decide il futuro del Paese. Perché mai come oggi, per citare il Presidente del Consiglio, la politica estera è politica interna.