Il continente dove si parla solo inglese

Nella prospettiva INDIRE "sostenere le lingue accademiche diverse dall'inglese sarebbe "contrario" agli obiettivi di internazionalizzazione e rischierebbe addirittura di produrre effetti negativi, costringendo studenti e docenti a un carico di lavoro aggiuntivo"

Il continente dove si parla solo inglese
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Quanto sta accadendo con INDIRE, fra i più celebri enti di ricerca italiani, ha del clamoroso. A quest'istituto infatti, che si occupa di documentazione e innovazione, spetta anche la valutazione di una parte dei progetti accademici targati "Erasmus+", che hanno il fine sia di rafforzare l'uso delle lingue nazionali sia d'incrementare il plurilinguismo in ambito universitario: impostazione tra l'altro in linea con le direttive dell'Unione Europea e del Consiglio d'Europa, che hanno spesso invitato gli Stati membri a non arroccarsi su posizioni monolitiche, ma a promuovere piuttosto la pluralità nel campo della comunicazione. Un avvertimento che però INDIRE non ha recepito a dovere, visto che i suoi valutatori puntano palesemente all'opposto, sponsorizzando l'inglese in senso universale e svalutando di conseguenza tutti gli altri idiomi. Come denunciato dalla professoressa Diana Peppoloni, nella prospettiva INDIRE "sostenere le lingue accademiche diverse dall'inglese sarebbe "contrario" agli obiettivi di internazionalizzazione e rischierebbe addirittura di produrre effetti negativi, costringendo studenti e docenti a un carico di lavoro aggiuntivo". Nientemeno! Perciò parlare e scrivere nella nostra lingua madre pare troppo adesso, è uno sforzo eccessivo, è una degenerazione da evitare.

Quello che abbiamo davanti agli occhi, o meglio bocche, è un surreale "dogma linguistico", continua Peppoloni, la quale arriva giustamente a chiedersi le ragioni di tale posizione. Perché ingabbiare l'Europa in "un monolinguismo travestito da globalizzazione"? Perché progettare un simile depauperamento quando "le stesse istituzioni comunitarie ci ricordano quotidianamente che la diversità linguistica è una risorsa, non un problema?"

Di questo, con grande lungimiranza e con ancora più grande apprensione, ne parlava pure uno dei linguisti più illustri del nostro Paese, cioè Luca Serianni, che non nascondeva la sua preoccupazione neanche per l'insegnamento dell'inglese fin dalla scuola primaria: una cosa all'apparenza utilissima, ma in realtà parecchio insidiosa, se in certi casi si finisce con l'imporre ai bambini una totale immersione linguistica anglofila.

Dunque ciò che sembra un guadagno a conti fatti non lo è per nulla, anzi è una perdita, e delle più ingenti, se come conseguenza porta a perdere pezzi della nostra lingua madre come di altre possibilità espressive al di là dell'inglese.

"Una lingua che rinunciasse a esprimersi in aree culturalmente centrali come la scienza e la tecnologia" è sempre Serianni a parlare "sarebbe destinata a diventare nell'arco di pochi decenni un rispettabilissimo dialetto", ovvero, fuor di metafora, un sistema atto a veicolare informazioni rutinarie, un sistema semplicissimo e quindi "inadeguato a cimentarsi con

la complessità del presente e con l'astrazione propria dei processi intellettuali".

È allora questa la fine che vogliamo infliggere all'italiano come a tante altre lingue? Davvero vogliamo un'Europa che parli solo inglese?

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