
Ci sono voluti quarantadue anni. Un tempo quasi infinito. Quarantadue anni fa veniva arrestato Enzo Tortora, presentatore e giornalista, una vita distrutta dal connubio tra pubblici ministeri e giudici. Ieri il suo ricordo viene celebrato alla vigilia dell'approdo in Senato della legge che della battaglia combattuta da Tortora fino alla morte è la prima conseguenza concreta: la separazione delle carriere tra chi accusa e chi giudica, la riforma costituzionale che per decenni è stata bloccata dall'Associazione nazionale magistrati.
È la stessa Anm che non si perita oggi di battersi contro l'istituzione di una Giornata per le vittime degli errori giudiziari: «Trovo folle che in Italia per istituire una giornata del genere, quando ne abbiamo una per qualsiasi cosa, si debba ascoltare l'Anm», dice ieri Gaia Tortora, figlia di Enzo. Ma Giandomenico Caiazza, che del presentatore fu uno dei legali, va più in là, e dice che la persecuzione di Tortora in realtà non fu solo un errore giudiziario, «ma una perfetta anticipazione dei mali che tutt'oggi affliggono la giustizia: la Procura che difende ad ogni costo il proprio errore, il giudice che corre in solidale soccorso del pm e della credibilità di una inchiesta clamorosa e di rilievo mediatico eccezionale». Nel caso di Tortora, sottolinea Caiazza, l'asse tra pm e giudici resse solo in primo grado, e saltò in appello, «il fatto non sussiste». Ma ci sono voluti altri decenni, e centinaia di altre vittime, perché la separazione delle carriere prendesse forma di legge.
Chissà quanti ne serviranno perché prenda forma l'altro rimedio invocato da allora, non solo dai radicali ma dal referendum approvato dall'83 per cento degli italiani: la responsabilità civile dei giudici, il principio - comune a tutti gli altri lavoratori - che chi sbaglia paga. Il referendum rimase lettera morta. Ma è lì che ieri Caiazza torna a battere, «alla base delle distorsioni c'è la più grave di esse, la irresponsabilità totale dei pm e dei giudici». D'altronde nel 1988 Caiazza citò per i danni a Tortora i sei magistrati - con in testa Lucio Di Pietro e Felice Di Persia - che avevano gestito la persecuzione. Risultato: i magistrati lo denunciarono per calunnia.
Si sono ritrovati in tanti, ieri, nel cimitero milanese dove riposa l'uomo che era una presenza familiare, rassicurante, nei salotti degli italiani: e che una mattina d'estate venne trascinato via in ceppi, marchiato come narcotrafficante e complice di camorristi. I pentiti avevano inventato tutto, per offrire ai «loro» pm la preda che li avrebbe fatti diventare famosi. Né i magistrati della Procura né i loro colleghi del tribunale si fermarono davanti alla inverosimiglianza, alle contraddizioni, agli elementi a favore. Tortora in primo grado venne condannato a dieci anni di carcere, un supplizio che il segretario della Fondazione Einaudi, Andrea Cangini, paragona a quello di Giordano Bruno. «Con la differenza che la Chiesa cattolica romana è molto cambiata dai tempi del rogo in Campo de' Fiori, mentre la magistratura, i media e la società italiana non sono affatto cambiati dai tempi in cui Tortora subì il proprio calvario giudiziario e civile».
Ora però arriva la separazione delle carriere, arriva - nella stessa riforma - anche l'innovazione che dovrebbe togliere alle correnti dell'Anm la gestione dei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati distratti e superficiali che portano la responsabilità della gran parte delle carcerazioni ingiuste. Cosa cambierà davvero è presto per dirlo.
Ma se qualcosa cambierà sarà merito per primo di Tortora, delle sue battaglie e del suo coraggio: «Enzo Tortora - dice ieri Raffaele Della Valle, suo difensore storico - ha vissuto quella vicenda con angoscia, ma anche con una dignità che in 62 anni di professione non avevo mai visto e non ho più ritrovato».