«Mors tua, vita mea». Le dimissioni del direttore editoriale della Rai, Carlo Verdelli, mi sono sembrate il sacrificio dell'anello più debole del vertice di viale Mazzini per salvare altri cavalli morenti. Una specie di alibi: diamo in pasto all'opinione pubblica la testa di un vero professionista, di un giornalista di lungo corso, per salvare tutti gli altri. Una pseudo resa dei conti, insomma, per non riconoscere e nascondere altre responsabilità. Credo che l'interpretazione più veritiera dell'uscita di scena di Verdelli sia proprio questa per il semplice motivo - e lo dico come parte in causa essendo membro del cda - che, nella riunione informale del 3 gennaio, ben poco è cambiato rispetto a quanto emerso nel precedente consiglio del 22 dicembre.
Perché Verdelli si è, allora, dimesso considerando che, poco prima di Natale, si era detto disposto a collaborare per apportare tutte le modifiche necessarie al piano? Sarebbe stato molto più corretto un vero coinvolgimento, già nei mesi scorsi, dei consiglieri che hanno appreso solo dalle anticipazioni di un settimanale le linee guida del piano, ma si poteva, comunque, ancora lavorare insieme. Cosa è, dunque, successo nelle ultime due settimane, festività comprese, per fare precipitare la situazione? Il motivo del forfait è uno solo: nell'ultima riunione, il dg Antonio Campo Dall'Orto si è fatto dare semplicemente un placet non votato per avocare a sé la rielaborazione del piano spiazzando, di fatto, il direttore editoriale. Un piano che, guarda caso, ripartirà, a grandi linee, proprio dallo stesso progetto «bocciato», togliendo solo gli aspetti più criticati, come il trasferimento di una rete a Milano o il raggruppamento delle sedi regionali. Sembra quasi che sia passata una «visione badogliana»: qualche cambiamento in corso d'opera, tanto per contenere i danni.
Ma il problema è che la guerra continua, perché tutti i nodi irrisolti restano sul tappeto e non bastano certo alcuni tocchi di maquillage per rimettere in pista la Rai. È sufficiente, al riguardo, leggere l'intervista che Campo Dall'Orto ha concesso ieri a un giornale. Il direttore generale ha continuato a parlare di accorpamenti di sedi o di «mission» dei vari tg, ma non ha invece affrontato la vera sfida che pende, come una spada di Damocle, sul futuro dell'ente radiotelevisivo: il pluralismo e la libertà dell'informazione che devono prescindere da chi occupa Palazzo Chigi. È la grande emergenza da affrontare in viale Mazzini, come abbiamo visto in occasione del referendum con tutti gli spazi occupati dal governo Renzi, altro che «media company» o voli pindarici sul nulla.
Sono convinto che qualsiasi tentativo di normalizzazione parta proprio da questo punto: che cosa s'intende fare per evitare anche in futuro il «pensiero unico»? Il direttore generale, quasi per rifarsi una verginità, si è limitato, nell'intervista, a rilanciare la notizia che la Berlinguer prenderà, in febbraio, il posto di Gianluca Semprini e del suo abortito «Politcs» al martedì sera. Peccato solo che Bianca fosse stata silurata, in estate, dalla direzione del Tg3 proprio perché ritenuta anti «Sì» al referendum e che, sempre prima del 4 dicembre, il suo talk show pomeridiano abbia avuto tanti bastoni tra le ruote.
Campo Dall'Orto si è pure dimenticato di sottolineare il fatto che l'ufficio del direttore editoriale era stato creato, nuova di zecca, proprio da lui medesimo. Se oggi, come ha annunciato, la poltrona di Verdelli resterà vuota (anche il suo vice, Merlo se ne è appena andato), mi sorge un forte dubbio: non è che sia stata messa in piedi un'inutile e costosa sovrastruttura con una certa faciloneria? E, a proposito di costi, abbiamo parlato in lungo e in largo di piani editoriali, ma non siamo ancora stati informati sui relativi aggravi di bilancio.
Con il rinnovo della concessione dietro l'angolo, non sarebbe davvero male saperne subito di più, magari già nel prossimo cda, sul fronte economico. E, a proposito di Rai, aveva proprio ragione il mitico maestro Manzi: non è mai troppo tardi. Soprattutto per voltare pagina.
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