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"Contro Falcone si saldarono magistratura e Cosa nostra"

L'ex Guardasigilli Martelli: "Per le toghe Giovanni era un nemico, mi dimisi perché ormai ero rimasto solo"

"Contro Falcone si saldarono magistratura e Cosa nostra"

«Contro Giovanni Falcone c'è stata un'azione parallela di Cosa nostra e della magistratura. La mafia aveva occhi e orecchie al Palazzo di Giustizia di Palermo. Parlando con il giornalista Francesco La Licata una volta il giudice gli disse, a proposito dell'attentato fallito all'Addaura: C'è stata la saldatura». Claudio Martelli ha scritto un bellissimo libro per ricostruire la vita del giudice antimafia morto a Capaci 30 anni fa. Si intitola Vita e persecuzione di Giovanni Falcone, e dalle prime pagine è chiaro dove l'allora Guardasigilli andrà a parare: il ruolo della Dc e del Pci-Pds, le toghe di sinistra e di destra infine la «tacita trattativa» che coinvolge Oscar Luigi Scalfaro ma anche il ruolo di Giulio Andreotti, di cui è stato vice presidente, i possibili mandanti esterni («Anche Bettino Craxi si chiedeva: è stata solo la mafia?») e il ruolo della 'ndrangheta che Falcone «pensava fosse affiliata a Cosa Nostra».

Nel libro lei rivendica le azioni del governo Andreotti contro la mafia: il 41 bis, i premi ai pentiti e i programmi di protezione...

«Io ero vicepresidente e ministro della Giustizia, Enzo Scotti era ministro dell'Interno. Certamente Andreotti non ha mai ostacolato le nostre scelte, ma attribuirle a lui mi sembra un salto logico. E questo collima con la sentenza della Cassazione, quando dice che fino al 1980 Andreotti aveva rapporti più che amichevoli con Cosa nostra, mediati dai cugini Salvo».

Il suo ruolo di Guardasigilli restò in ballo fino alla fine, poi lei si dimise qualche mese dopo.

«Enzo Scotti viene estromesso dal Viminale e va agli Esteri (al suo posto verrà scelto Nicola Mancino), il presidente del Consiglio incaricato Giuliano Amato mi dice Craxi non ti vuole alla Giustizia, vai alla Difesa. Io gli dico Hanno ucciso Falcone, con lui ho cominciato una battaglia, o la continuo o me ne vado. Amato mi richiama e mi dice Craxi ha detto che i tuoi sono buoni argomenti».

E viene confermato. Poi si dimetterà qualche mese dopo...

«Sul fronte antimafia, massacrato Falcone, estromesso Scotti mi ritrovai solo. Mancino mi chiede tempo per difendere il decreto Falcone su 41 bis, una misura preventiva, non punitiva per impedire che i boss mafiosi spadroneggiassero in carcere».

Erano contrari tanti partiti

«Non c'era voglia di fare la guerra alla mafia. Dc e Pds definirono il decreto incostituzionale. Ma dopo la strage di via d'Amelio non hanno più argomenti. Io ottengo l'approvazione, ma se non ricordo male il Pds si astenne».

Per le toghe Falcone era un nemico. Perché?

«È una domanda che mi tormenta da 30 anni. Solite beghe? Invidie? Gelosie? Dicevano che era affetto da smanie di protagonismo eppure aveva appena vinto il processo contro Cosa Nostra, Antonino Caponnetto lo considerava il suo erede naturale, aveva ricevuto encomi da Bush, dal ministero della Giustizia Usa e dall'Fbi che poi gli dedicò una statua. Una volta un giudice canadese lo invitò a presiedere un processo, dicendo se in un'aula giudiziaria c'è Falcone, il suo posto è alla presidenza. Era il giudice antimafia più famoso al mondo».

Eppure il Csm per il dopo Caponnetto sceglie Antonino Meli...

«Meli fu scelto proprio per distruggere l'opera di Falcone. Con lui degradato, il pool sciolto e il maxi processo contestato, il Pci-Pds si mise di traverso contro di lui, ben prima che venisse a lavorare per me. Gerardo Chiaromonte, allora presidente della commissione Antimafia, ricorda che dopo il fallito attentato all'Addaura esponenti della Dc e del Pci vicini al sindaco Leoluca Orlando lo deridevano dicendo che se l'era organizzato da solo».

E la risposta che si è dato qual è?

«I magistrati coraggiosi venivano trucidati, il resto della magistratura siciliana non aveva alcuna voglia di muovere guerra alla mafia. Paura, connivenza, quieto vivere?».

Ci fu una tacita trattativa, come scrisse la Dia dopo il black out a Palazzo Chigi e le bombe a Roma nel luglio 1993? E chi la guidò?

«Credo che Scalfaro di fronte alla tacita trattativa proposta dalla mafia a suon di bombe - sono parole di Gianni de Gennaro e il governo con Conso alla Giustizia si siano illusi di placare i boss di Cosa Nostra, nell'intento lodevole di evitare nuove stragi. Invece la successione storica dei fatti dice che i cedimenti sul 41 bis non hanno evitato le stragi del 1993: gli attentati a Maurizio Costanzo, via Palestro a Milano, via dei Georgofili a Firenze, i due attentati di Roma e l'ultimo, quello fallito allo stadio Olimpico».

E il processo sulla Trattativa?

«La trattativa di governo c'è stata ma non è reato, piuttosto un colossale errore politico che ha prodotto nuove stragi. Anche i vertici del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno con il loro colloquiare con Vito Ciancimino (lo dichiarò lo stesso Mori a Firenze) volevano fermare le stragi. Ma anche questo non è reato. La Corte d'Appello ha giustamente annullato le condanne».

A Capaci cosa provò?

«L'ho detto, è stato il giorno più brutto della mia vita. Falcone era il miglior magistrato che avessimo ed era mio amico. Il mio stato d'animo? Un dolore e un ira indicibili, il mio dovere quello di reagire per trasformarlo nel giorno più brutto della mafia».

C'è un particolare curioso. Lei scrive: «È stato Sergio Restelli, capo della mia segreteria, con me sul luogo dell'attentato a scorgere i mozziconi, ad avere l'intuizione e a prenderli».

«Sì, Sergio ha avuto l'intuizione, come un cane da fiuto. Abbiamo chiamato i poliziotti che ci accompagnavano, li hanno raccolti e li abbiamo dati all'Fbi che era già sul posto, perché loro sapevano fare le indagini sul Dna. Hanno individuato loro gli assassini».

Il 16 dicembre 1991 Falcone incontrò segretamente in carcere a Spoleto, su disposizione del suo capo di gabinetto Livia Pomodoro, Gaspare Mutolo. Cosa le disse Falcone di quell'incontro?

«Dubito che Falcone stando al governo compisse indagini, era troppo corretto per farlo. Mutolo aveva detto che parlava solo con Falcone, forse lui l'avrà indirizzato a Borsellino».

Perché non avvisare la magistratura? Falcone non si fidava di qualcuno al ministero della Giustizia?

«Non credo, ma non lo so».

Al processo della strage di Capaci lei disse che Falcone voleva incontrare Buscetta dopo l'omicidio di Salvo Lima. Il viaggio negli Usa smentito dal ministero, ci fu?

«Bisogna stare molto attenti agli scatti di immaginazione».

Il suo telefono era irraggiungibile

«Ma chi lo dice? Su quali basi verificate? È molto strano che nessuno di noi lo sapesse. Se fosse andato a interrogare qualcuno credo che non me l'avrebbe tenuto nascosto, per i rapporti che avevamo».

Nel libro L'Italia vista dalla Cia si parla di un dispaccio confidenziale dell'ambasciata Usa di Roma su un incontro con lei in cui si dice che lei stesso avrebbe inviato Liliana Ferraro a Palermo per gestire il passaggio dell'intera indagine nelle mani di Paolo Borsellino, incontro confermato dalla famosa agenda grigia.

«Mi sembra una colossale bufala. Io non ho mai incaricato la Ferraro di qualcosa di assurdo: andare a Palermo per incaricare Borsellino di indagini di competenza della procura di Caltanisetta».

Lo dice il dispaccio Usa

«Vorrei proprio vederlo... Sui rapporti tra Falcone e gli Usa la invito a leggere il libro di uno stretto collaboratore di Falcone, Gian Nicola Sinisi, A sicilian patriot. Di questa notizia non c'è traccia. Borsellino poteva collaborare con Caltanissetta, cosa che sicuramente avrà fatto».

Che ne pensa della fantomatica pista su Stefano Delle Chiaie?

«Sulla strage di Capaci c'è una verità giudiziaria che non è stata mai smentita, né sui mandanti né sugli esecutori, alcuni dei quali rei confessi. Mi fido di quello che dice il procuratore di Caltanissetta.

Bisogna spazzare via i polveroni, gli strilloni e le invenzioni».

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