È la metamorfosi di un mito, quello del Welfare nordico. Dallo slogan "dalla culla alla tomba" si è ora finiti al controllo dei costi. La notizia più recente è che il governo conservatore svedese ha delineato una strategia di riordino del sistema assistenziale che prevede la diminuzione degli aiuti economici ai cittadini senza occupazione, accompagnata da sgravi fiscali per chi lavora. La proposta, illustrata dalla ministra per gli affari sociali Anna Tenje, mira a incentivare il passaggio dall'assistenza pubblica all'attività lavorativa attraverso la contrazione delle erogazioni e la riduzione del carico tributario sui redditi da lavoro.
Questa trasformazione rappresenta un momento di particolare significato storico per un Paese che, insieme agli altri Stati nordici, ha incarnato per decenni l'ideale di una società capace di garantire sicurezza sociale universale. La Scandinavia degli anni Sessanta e Settanta del Novecento si era affermata come laboratorio di un modello assistenziale onnicomprensivo, dove la comunità si faceva carico delle necessità individuali attraverso un sistema di protezioni che accompagnavano effettivamente l'esistenza umana dalla nascita fino alla morte.
Il paradigma socialdemocratico di quegli anni prometteva e in larga misura manteneva la promessa di eliminare l'insicurezza economica attraverso una rete di sostegni pubblici finanziata da un prelievo fiscale progressivo. Era l'epoca in cui economisti e politologi di tutto il mondo guardavano ai paesi nordici come alla dimostrazione pratica che prosperità economica e giustizia sociale potevano coesistere armoniosamente.
Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta, le pressioni demografiche, l'evoluzione dei mercati globali e la crescente competizione internazionale hanno iniziato a mettere sotto tensione questo modello. Il progressivo invecchiamento della popolazione, combinato con flussi migratori significativi e tassi di disoccupazione strutturalmente elevati, ha gradualmente eroso la sostenibilità finanziaria del sistema.
La situazione svedese attuale ne è testimonianza palese: con un tasso di disoccupazione dell'8,8% tra i più alti d'Europa il Paese si trova a dover ripensare fondamentalmente l'architettura del proprio stato sociale. La riforma proposta introduce limitazioni drastiche, particolarmente per le famiglie numerose, dove i benefici per i figli subirebbero riduzioni fino al 75% dal quarto figlio in poi. Un problema, quello dei benefici alle famiglie numerose, postosi a seguito della forte immigrazione dai Paesi arabi.
Particolarmente significativa appare la modifica dei criteri di accesso per i nuovi residenti, che dovranno attendere cinque anni prima di poter beneficiare delle prestazioni principali. Questa misura in particolare sottolinea la tensione crescente tra solidarietà universale e sostenibilità fiscale, tema che attraversa trasversalmente le democrazie europee.
Non è solo la Svezia a invertire la rotta. La Finlandia ha intrapreso un percorso analogo, mentre la Danimarca ha sviluppato già negli anni Novanta il proprio sistema di flexicurity, bilanciando flessibilità del mercato del lavoro con protezioni sociali, ma sotto condizioni sempre più stringenti. Questo ripensamento del welfare scandinavo non rappresenta semplicemente un adeguamento tecnico. Segna la fine di un'epoca ideologica. Il modello che aveva ispirato generazioni di riformatori progressisti in tutto il mondo deve ora confrontarsi con vincoli di realtà che ne limitano drasticamente la portata universalistica.
L'interesse di altri Paesi europei, Germania inclusa, per queste sperimentazioni
nordiche suggerisce che siamo di fronte a una trasformazione di portata continentale, dove il sogno di una sicurezza sociale incondizionata cede il passo a logiche di condizionalità e controllo dei costi sempre più pervasive.