Milano Confusione, perplessità, disperazione. E perché no, anche un cauto ma motivato ottimismo. Il giorno dopo la sentenza della Cassazione che considera reato commercializzare i derivati della cannabis light, ciò che accomuna tutta la filiera di operatori del settore - rivenditori, distributori, coltivatori e vivaisti - è la preoccupazione che l'immaginario collettivo del nutrito target di consumatori tra i 40 e i 70 anni, tra cui una fetta non indifferente affetta da patologie gravi e gravissime (dall'ansia all'insonnia, dal Parkinson all'Alzheimer) venga travolto e annullato da chi ha sempre considerato il prodotto come una vera e propria sostanza stupefacente.
«Ma mandassero le forze dell'ordine a fare controlli nel boschetto dei tossicodipendenti a Rogoredo, non nei nostri negozi! Lo sa che i compagni di scuola di mia figlia le dicono che io e sua madre siamo spacciatori? - esclama Giorgio Biondi, 51 anni, direttore marketing di «BuenaVita», un negozio di prodotti a base di canapa in via Donatello, a Città Studi, aperto dal 2016 -. La Cassazione parla di sostanze droganti? E allora si renderanno conto che tra i 523 prodotti a base di canapa che vendo qui, nemmeno uno può essere indicato come droga. Sono convinto che alla fine saranno veramente pochissime le attività costrette a chiudere. Intanto aspetto le motivazioni della sentenza. Ci sarà una ragione se la vendita delle benzodiazepine dal 2016 in Italia è calata del 2.5 per cento e quella degli oppioidi dell'1.6 per cento. Subito dopo la sentenza chi è venuto a fare incetta di prodotti nel timore di rimanere senza sono stati proprio coloro che soffrono di patologie gravi. Chissà: magari è la volta buona che si fa chiarezza».
La telefonata più sensazionale tra le decine giunte ieri, arriva proprio mentre ci troviamo all'interno del negozio milanese di viale Umbria 41 «Sir Hemp» e sembra giungere dritta dritta dall'oltretomba. «Chiudete! Pentitevi! Smettete di rovinare con questo commercio di sostanze sataniche i giovani e salvatevi l'anima!» tuona con un marcato accento romagnolo un certo David, qualificatosi come diacono ed esorcista di una parrocchia di Rimini. Scuote la testa e abbassa il ricevitore Marco Russo, 30 anni, titolare e fondatore nel 2015 di questo piccolo store che è stato il primo Hemp Shop italiano («Sir» è l'acronimo nato dalle iniziali delle tre specie di cannabis: sativa, indica e ruderalis) e fondatore dell'evento «4.20 Hempfest», dove il 6 maggio il ministro Salvini ha mandato la polizia, fa notare che la sentenza di giovedì «non smuove di una virgola quello che già esisteva. La sentenza conferma la liceità di quanto i veri professionisti del settore commercializzano da oltre tre anni a questa parte».
«Sono un imprenditore sul lastrico».
Va giù con l'accetta Timo Errera, 37 anni, ortoflorovivaista a Lodi e profondo conoscitore del prodotto, già premiato con la coppa italiana per la miglior qualità di inflorescenza. «È una bastonata e il paradosso è ancora più grande perché il mercato c'è e in Italia vale 80 milioni di euro l'anno. Ho investito quando la legge mi permetteva di farlo, ora chi mi risarcirà?».
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