Magistratura

Un decennio di gogna, 23.748 intercettazioni e accuse infamanti. Ma l'inchiesta è un flop

Tolto al pm di Torino Colace l'ultimo troncone dell'indagine su Muttoni (ascoltato per anni) e l'ex dem Esposito: l'indagine non porta a nulla. Ma il politico pro Tav e l'imprenditore sono ko

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Giusto venerdì, lo spicchio più succoso del procedimento che si trascinava da almeno otto anni è stato trasferito per competenza a Roma. E il pm Gianfranco Colace ha perso un altro pezzo del suo «sistema». In questo troncone ci sono almeno due personaggi eccellenti: l'ex senatore del Pd Stefano Esposito, il più accanito sì Tav della sinistra subalpina, e l'imprenditore Giulio Muttoni che sotto la Mole era fino a una decina di anni fa il numero uno nell'organizzazione di eventi e concerti. Da Torino a Roma per le accuse, impalpabili, di corruzione e traffico di influenze.

En passant, Esposito è stato intercettato illegalmente 500 volte e per questo qualche settimana fa è stata avviata l'azione disciplinare contro Colace e ci si chiede come la procura di Torino non si sia accorta di chi stava ascoltando. Sempre en passant, le intercettazioni contro Muttoni, iniziate nel febbraio 2015 (qualche mese prima dell'arrivo di Colace che poi gestirà gran parte di questo traffico di captazioni) sono 23748. Un numero stratosferico. Ma sempre a Torino il tamtam già annuncia l'arrivo di altre centinaia di registrazioni, notizia al momento non verificabile. Di sicuro, Colace, magistrato appartenete alla corrente progressista di Area, smarrisce per strada un'altra inchiesta. Nello stesso processo, un altro filone, dove gli imputati hanno scelto il rito abbreviato, si è chiuso con sei assoluzioni su sei.

È difficile raccapezzarsi nel «labirinto» Colace, in realtà iniziato nel 2014, prima dunque del suo ingresso in scena, ma a contestazioni terrificanti, reiterate nel tempo, corrispondono almeno finora risultati prossimi allo zero. Un altro pezzo, questa volta per turbativa d'asta, è stato tolto dal solito limbo per opera della procura generale che ha avocato il fascicolo; c'è poi il pesantissimo segmento in cui si procedeva per associazione a delinquere di stampo mafioso che ruota sempre intorno allo stesso gruppo di soggetti: costoro avrebbero avuto in qualche modo, rapporti con la 'Ndrangheta e al centro di tutto c'è sempre Muttoni, entrato nel tritacarne nel 2014 e ancora sotto scacco, anche se ormai gran parte delle accuse è caduta, si è dimostrata evanescente o è destinata alla prescrizione.

Bene, questo segmento è atterrato in archivio il 7 agosto scorso, dopo il mitragliamento di richieste da parte dell'avvocato di Muttoni, Fabrizio Siggia che aveva chiesto anche in questo caso l'avocazione alla procura generale. Ma le sorprese, sempre en passant, non sono finite: perché quando gli avvocati hanno avuto fra le mani le carte del fascicolo - condotto da Colace in tandem con Paolo Toso - che ha inchiodato Muttoni ad un destino così infamante per anni, sono saltate fuori in tutto sette paginette striminzite. Tutto qua? Sette paginette, i presunti mafiosi senza collegamenti con la mafia, e un peccato originale: l'informativa del 2019 - che incredibilmente duplicava un precedente spunto investigativo arenatosi nel 2015 - allungava ombre sinistre sul giudice Andrea Padalino, sull'ex maresciallo Riccardo Ravera, che aveva partecipato alla cattura di Totó Riina, e già che c'era sul colonnello dei carabinieri Cosimo Sframeli, icona antimafia, «la cui figura - è lo sfregio dell'informativa - meriterebbe ulteriori approfondimenti».

Sempre en passant, il prezzo pagato è stato altissimo: in parallelo alla procura si muoveva la prefettura che ha scagliato contro le aziende coinvolte le frecce paralizzanti delle interdittive antimafia, interdittive che oggi vengono giù come foglie d'autunno ma intanto hanno provocato danni irreversibili. Oggi Muttoni appare emaciato in tv a raccontare la storia di un disastro: «Sono più vicino ad avere giustizia ma le mie società non esistono più». Un dramma che è passato sotto silenzio e ha portato di fatto all'eliminazione di due personaggi odiati dal movimento No Tav: Esposito, colpito per la sua amicizia con Muttoni, e appunto il giudice Andrea Padalino, motore del Pool contro le violenze dei No Tav, risucchiato nel reticolo di queste indagini perché il suo caposcorta, il poliziotto Davide Barbato, era stato accusato di corruzione insieme all'onnipresente Muttoni. Coincidenze, naturalmente. Che hanno avuto conseguenze gravissime. Padalino, poi processato a Milano per corruzione, è stato assolto e ha controdenunciato mezza procura di Torino.

Altri veleni nel labirinto senza fine.

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