"La dieta è mediterranea, basta usurpatori a tavola"

Meno frutta e verdura, più cibo omologato nella patria della dieta mediterranea

"La dieta è mediterranea, basta usurpatori a tavola"

Meno frutta e verdura, più cibo omologato nella patria della dieta mediterranea: è il rischio che corre il nostro Paese, motivo dell'allarme lanciato da Filiera Italia in occasione della recente Giornata della dieta mediterranea nei mercati di Campagna amica. Un paradosso: mentre il resto del mondo esalta la nostra dieta come modello salutare e sostenibile, in Italia una parte della popolazione rischia di allontanarsene sotto la pressione del marketing di multinazionali interessate a vendere sempre più il loro cibo omologato. A Luigi Scordamaglia, amministratore delegato di Filiera Italia, chiediamo di commentare un fenomeno che potrebbe procurare danni gravi alla nostra economia ma anche alla salute dei cittadini.

Scordamaglia, in questi giorni state celebrando i benefici della dieta mediterranea. Quanto è ancora attuale questa narrazione?

«Mai come oggi, direi. La dieta mediterranea non rappresenta solo un modello di alimentazione ma un complesso di valori sociali, ambientali ed economici che riflette storia, tradizioni e anche il futuro delle comunità che popolano l'area mediterranea e dei loro territori. Per questo è fondamentale continuare a raccontarla come stiamo facendo anche come vettore di giustizia e responsabilità sociale, di equa ripartizione di valore aggiunto, di ricadute positive territoriali. Insomma, i valori fondanti di Filiera Italia».

Va a vostro merito che per primi siete riusciti a mettere insieme la produzione agricola di eccellenza italiana con i principali brand dell'industria alimentare, segnando un confine netto. Nonostante ciò, il termine dieta mediterranea è sempre più inflazionato e spesso usato con finalità di marketing per prodotti che di mediterraneo hanno molto poco.

«È la nostra maggiore preoccupazione. Quando anni fa, con una certa lungimiranza, abbiamo avuto con Coldiretti l'intuizione di mettere insieme il meglio della produzione agricola con i grandi brand della trasformazione italiana, avevamo un obiettivo preciso: fare il bene della crescita del nostro settore, e quindi del Paese, assicurando una giusta ripartizione del valore aggiunto generato, ma nel contempo fare il bene anche della salute del consumatore».

Combinazione non semplice di questi tempi.

«Ma ci siamo riusciti. Grazie a prodotti naturali caratterizzati da alti standard di sicurezza e qualità, frutto di processi di trasformazione minime che affondano in tradizioni centenarie e nella qualità del prodotto di partenza, piuttosto che basati su ingredienti artificiali che omologano e annullano la distintività. Da qui tutte le nostre principali battaglie che hanno portato al varo di strumenti anche normativi come i contratti di filiera, il contrasto alle pratiche commerciali sleali e tanti accordi volontari che stanno portando ad un aumento dell'autosufficienza e della sovranità alimentare del Paese».

Un'affermazione che sa di protezionismo...

«Per nulla. Noi siamo per mercati aperti ma con regole giuste. Ciò che maggiormente ci preoccupa sono gli usi opportunistici della parola mediterraneo quando si parla di alimentazione».

Questo spiega perché siete contro l'omologazione proposta dalle multinazionali globali del cibo e dunque contro alleanze come quelle che di recente ha stretto Confagricoltura, l'associazione dei produttori guidata da Massimiliano Giansanti.

«Bisogna avere il coraggio di fare delle scelte. Non si può dire di rappresentare al tempo stesso grandi multinazionali globali che hanno la loro forza in prodotti omologati, con identico sapore e gusto in tutte le parti del mondo, ed aziende che piccole o grandi rappresentano la distintività e la tipicità italiana. Non è difficile intuire gli interessi che le prime riescono a muovere a totale svantaggio delle seconde».

Ha in mente qualche esempio in particolare?

«Penso ad associazioni come Union Food che ormai hanno tra i loro soci aziende che producono integratori, multinazionali globali dell'alimentare come Nestlè, Unilever, Mondelez, aziende farmaceutiche come Bayer (quella del glifosato usato per il grano nord americano anche in fase di essicazione, ndr) ed accanto a loro imprese di un prodotto tipico come la pasta. È fuori dalla mia portata, e non solo mia, riuscire a capire come interessi così divergenti possano essere rappresentati in un unico contenitore».

Union Food è l'organizzazione industriale che insieme a Confagricoltura ha lanciato Mediterranea presentata nei giorni scorsi ad alcuni ministri. Che cosa in particolare non le piace di quel progetto?

«Faccio davvero fatica a capire come sposare modelli omologanti di multinazionali globali porti valore agli agricoltori. In questo modo Confagricoltura si mette al rimorchio di questi potentati multinazionali, facendone la foglia di fico. Dicono di voler promuovere la dieta mediterranea ma poi quelle multinazionali sostengono il Nutri-Score, investono nei cibi prodotti in laboratorio e a volte non rispettano le norme sulle pratiche commerciali sleali come testimoniato dalle sanzioni applicate a Lactalis. E questi sono fatti».

Sia più esplicito.

«Dico semplicemente che quando a Bruxelles attaccavamo, insieme alle organizzazioni degli altri Paesi, il commissario Timmermans spiegando che la transizione verde non poteva essere fatta contro gli agricoltori, alcune di queste multinazionali incontravano il gabinetto del commissario per spingerlo ad andare avanti sulla sua linea ideologica non aderendo alle richieste di una categoria vitale per l'Europa. Davvero difficile immaginare come si possono fare alleanze con aziende multinazionali che di fatto considerano i produttori agricoli come i mezzadri di una volta incapaci di autodeterminare il loro futuro».

Di contraddizioni e strategie insensate è costellato il cammino dell'Unione. E la politica della Commissione che ci ha governato in questi anni non fa eccezione, anzi.

«Purtroppo è così, basti pensare che l'organizzazione agricola da lei citata fa parte di una realtà con sede a Bruxelles, l'European Food Forum, che accoglie non solo molte di queste multinazionali globali, ma addirittura l'associazione europea dei cibi a base cellulare fatti in laboratorio. Davvero qualcuno può pensare che chi produce cibi sintetici come carne, latte, formaggi ed ora anche ortofrutta ottenute in laboratorio possa allearsi con un'organizzazione agricola? Bisognerebbe uscire dall'ipocrisia di fare dichiarazioni contro il cibo sintetico in Italia e poi stare allo stesso tavolo a Bruxelles. Per noi la coerenza è un valore irrinunciabile».

Di là delle degenerazioni che abbiamo sotto gli occhi, non è però un po' illusorio immaginare un futuro fatto solo di cibi freschi e non trasformati?

«In tutte le diete serve equilibrio, ce lo dicono i medici. Anzi questa è la banale difesa di chi pensa così di nascondere i danni dei cibi ultra processati contenenti decine di ingredienti chimici. Ma una cosa è sottoporre prodotti naturali come il latte o la carne a processi di trasformazione semplici che esistono da millenni, come l'essiccazione e il sale per produrre prodotti di eccezionale qualità, come i nostri formaggi e salumi; altro è un prodotto che alla fine è composto più da ingredienti sintetici e chimici che da altro».

C'è quindi anche un problema di credibilità.

«Sicuro. Chi gioca a far confusione su questa cosa non è assolutamente credibile. L'industria alimentare ha sempre svolto in Italia un ruolo insostituibile con grandissimi campioni nazionali che sono il vero strumento della valorizzazione della produzione agricola. È solo a questi che noi guardiamo e vogliamo rappresentare. Non bisognerebbe prestarsi ad essere la foglia di fico di nessuno».

Però anche Filiera Italia contempla nel proprio ambito presenze complicate come McDonald's e Carrefour sostenitrice del Nutri-Score.

«Noi abbiamo due criteri di valutazione chiari e trasparenti: il primo è il valore aggiunto concreto e misurabile creato per la filiera e la produzione agricola italiana. Il secondo è il rispetto di una carta dei valori, che apriremo anche a contributi di associazioni dei consumatori e che prevede tra l'altro il no senza se e senza ma al Nutri-Score. Per quanto riguarda Mcdonald's, il suo modello di multinazionale con ricette e standard di prodotti simili in tutto il mondo si è differenziato in Italia proprio grazie agli accordi con Coldiretti e Filiera Italia arrivando ad un livello in cui il 90% dei prodotti venduti nei suoi ristoranti sono italiani, con ricadute positive anche sulle economie di prossimità».

Con Carrefour come avete risolto?

«Da loro abbiamo ottenuto impegni precisi affinché non applichino nel nostro Paese il Nutri-Score e stiamo negoziando altri impegni a livello Ue. Su questo saremo con chiunque coerenti ed intransigenti».

Avete lanciato una raccolta firme per imporre l'origine obbligatoria sugli alimenti. Che cosa chiedete in sostanza?

«La trasparenza su ciò che si mangia per noi è un diritto da garantire a tutti i cittadini europei. Per questo stiamo raccogliendo un milione di firme per introdurre l'etichettatura d'origine obbligatoria su tutti gli alimenti e cancellare la regola attuale del codice doganale sull'ultima trasformazione».

Scordamaglia, in sintesi qual è al momento l'obiettivo primo della vostra

battaglia?

«Vogliamo difendere il vero Made in Italy, sostenendo l'intera filiera, dalla produzione all'industria fino ai consumatori che devono essere messi sempre in condizione di scegliere in maniera consapevole ed informata».

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