Il dono di Salvini agli Usa: un governo senza grillini

Il leghista alla Casa Bianca si accredita come potenziale premier e cerca di far dimenticare l'amicizia con Putin

P er un Matteo Salvini che una parte dell'intelligence Usa descriveva come un Quisling del Cremlino quelli di ieri con i due Mike, il vicepresidente Pence e il segretario di Stato Pompeo, non erano appuntamenti facili.

Doveva dissipare le ombre che la Cia, proprio quando Pompeo ne era a capo, intravvedeva nei suoi rapporti con Mosca e doveva dimostrare di essere un leader in pectore fedele agli Stati Uniti e più affidabile di un Giuseppe Conte ritrovatosi - dopo gli inviti alla Casa Bianca - a sottoscrivere gli accordi commerciali con la Cina sulla Via della Seta. Ma soprattutto doveva comprovare di esser pronto a trasformarsi da alleato ad argine di un Movimento 5 stelle le cui ambiguità - dalle spese militari sugli F35 fino al Venezuela, passando per la Cina e le tecnologie 5G - hanno fatto venir i capelli dritti agli americani. E Salvini non si è certo tirato indietro.

La conquista della fiducia dei due Mike era, del resto un prerequisito fondamentale non solo per accedere, in un prossimo futuro, alla presidenza del Consiglio evitando problemi del Quirinale, ma anche per sopravvivere alle bordate di un'Unione europea pronta a demolire a colpi di spread e procedure d'infrazione l'eventuale manovra economica di un esecutivo tutto suo.

Due assist fondamentali per convincere i due Mike glieli aveva regalati la ministra della Difesa grillina Elisabetta Trenta che con le persistenti ambiguità sul previsto acquisto di 90 F35 ha fatto rimpiangere agli americani i peggiori governi del centro sinistra. Per non parlare dei tagli alla Difesa che grazie alle pulsioni pseudo pacifiste del M5s hanno fatto precipitare la spesa militare italiana fin quasi all'1 percento. Una caduta ingiustificabile soprattutto dopo la campagna di Trump per spingere gli alleati ad adeguarsi alla soglia minima del 2 per cento del Pil prevista dalle «linee guida» Nato.

I due argomenti sono per Salvini il vero cacio sui maccheroni. Da una parte gli consentono di dare il colpo di grazia alla Trenta dall'altra di auspicare nuovi spazi americani per un'industria italiana della difesa (leggi Leonardo) che in Europa risente dei paletti piantati da Francia e Germania.

Ma l'asso nella manica è una flat tax da realizzare nonostante le contrarietà di grillini ed Europa. Un tema che oltre a permettergli di sottolineare le assonanze con le riforme fiscali di Trump gli consente di puntare il dito su quelle politiche di austerità tedesche che rappresentano un autentico cruccio anche per la Casa Bianca. Da lì è un gioco da ragazzi presentare la sua lotta all'immigrazione e al terrorismo islamico come l'italica interpretazione delle politiche trumpiane a dispetto delle ritrosie grilline e degli ostacoli di Bruxelles.

Per allinearsi alle politiche anti-iraniane di Washington gli basta ricordare il viaggio in Israele iniziato con una visita ai tunnel costruiti da Hezbollah. Cina e Venezuela gli richiedono ancor meno fatica. Le sue plateali assenze, nel corso delle cerimonie per la visita del presidente cinese Xi Jinping e la firma degli accordi sulla Via della Seta erano già state notate a Washington. Come peraltro erano state rilevate le dichiarazioni a favore di Juan Guaidò nell'ambito di una questione venezuelana su cui il Movimento 5 stelle ha faticato ad archiviare un intemerato appoggio a Nicolas Maduro. Sulla Libia, vista la globale assenza di posizioni certe, gli basta accodarsi agli Usa. Anche nella certezza che difficilmente Trump farà regali a Macron.

L'unica cosa su cui il presunto Quisling non riesce a

discolparsi è la fiducia in Vladimir Putin. Ma anche qui Salvini ha un argomento da giocarsi. In fondo è stato Donald Trump a ribadire da sempre la volontà di dialogare con il presidente russo. Lui nel suo piccolo ha fatto lo stesso.

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