La voce ferma, decisa, con lunghe pause intervallate da tiri di sigaretta. E poi i nomi snocciolati uno dietro l'altro: Buscetta, Pippo Calò, il corto Riina. Giovanni Falcone traccia una fotografia di come si muoveva Cosa nostra a fine anni Ottanta, i suoi tentacoli, la sua attività in Sicilia. Ce l'ha con alcuni colleghi che pensano di conoscere la mafia meglio di lui, che cercano la Piovra fuori dalla Sicilia, uno dei tanti teoremi senza prove che hanno ostacolato la lotta a Cosa Nostra. E invece «epicentro della mafia - diceva nel 1989 in un audio esclusivo ritrovato dopo oltre 30 anni - è sempre la Sicilia e Palermo in particolare. Non si può far parte e gestire Cosa nostra se non hai il controllo del territorio nei punti cardine altrimenti duri lo spazio di un mattino», ammoniva il magistrato, ucciso nella strage di Capaci il 23 maggio 1992 insieme alla moglie e ai tre uomini della scorta.
Una lunga lezione che Falcone tenne per descrivere la mafia e come si muoveva. Lui che la criminalità organizzata la combatteva giorno dopo giorno; lui che aveva cominciato a smantellarne i cardini. Lui che ripeteva che «l'organizzazione di Cosa nostra è qualcosa che investe tanto a reticolo tutto il territorio che basta che solo alcuni diano gli ordini, che tutto il resto diventa un fatto automatico».
È un Falcone appassionato ed emozionato allo stesso tempo, in cui emerge la sua umanità e il suo amore per quel lavoro, quello della ricerca della verità e della giustizia. Nel trentennale dalle stragi di Capaci e Via d'Amelio, in cui persero la vita lo stesso Falcone e poi Paolo Borsellino, riemerge un audio di straordinaria attualità, diffuso in un podcast dell'agenzia askanews dal titolo «Falcone: le parole inascoltate».
Nel colloquio con i «suoi» uomini, emergono tutta la professionalità, la fermezza e la capacità investigativa del magistrato. «Su spostamenti di consigli di amministrazione della mafia dalla Sicilia altrove togliamocelo dalla testa - diceva il magistrato, che nel 1989 era giudice istruttore a Palermo -. Epicentro della mafia è sempre la Sicilia e Palermo in particolare».
Tracciava una «organizzazione a raggiera» che «produce certi risultati». Il linguaggio pacato ma allo stesso tempo deciso, con il suo accento marcatamente siciliano; lunghe pause quasi a scandire ogni singola parola. E poi le sue amate sigarette.
«Se non si comprende che questo tipo di organizzazione a raggiera produce certi risultati - ammoniva - questi risultati appaiono inspiegabili. Ecco perché mi sembra dissennato e folle, se in buona fede, peggio se in male fede, parlare di disorganizzazione delle famiglie». E proprio nel «momento in cui sta venendo fuori in tutta la sua pericolosità, la capacità di agire unitariamente di Cosa nostra, ancora continuiamo a parlare esattamente del contrario?».
Per il magistrato, simbolo della lotta alla mafia, lo spaccio di stupefacenti rappresentava solamente una minima attività di Cosa nostra. «C'è la necessità di rendersi conto che quando si parla ad esempio di traffico di stupefacenti come una delle più lucrose attività di Cosa nostra - denunciava - si è portati a ritenere che tutta Cosa nostra si occupi di traffico stupefacenti. Non è vero. Ci sono solo alcune fette importanti di membri di Cosa nostra che, collegati in diverso modo con personaggi non mafiosi o anche stranieri, gestiscono in tutto o in parte determinate linee del traffico di stupefacenti».
«Io mi ricordo che agli inizi, ora per fortuna non più - racconta - colleghi peraltro validissimi di altre parti d'Italia pensavano di venire qui ad insegnare a noi come si fanno le indagini e dirci cosa è la mafia. Colleghi che pensavano che dal piccolo trafficante o dallo spacciatore, risalendo a ritroso la catena dei passaggi sicuramente sarebbero risaliti al laboratorio di eroina... Obiezioni che mi sento dire spesso anche nei salotti di Roma...basta seguire e ci si arriva. E invece più si va avanti nelle indagini e più ci si rende conto dell'estrema complessità».
Racconta Falcone di alcune vicende che lo hanno riguardato in prima persona. Come quando è andato a interrogare Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi, dopo la sua deposizione al processo della pizza Connection. «Era in particolare stato di prostrazione psichica - racconta il magistrato - e io chiesi che cosa fosse successo. Rispose che dall'oggi al domani le persone che qualche mese prima del suo esame gli stavano accanto, non gli rivolsero più la parola».
Giovanni Falcone definisce poi Pippo Calò non il «cassiere di Cosa nostra» ma «il cassiere di se stesso». «Pippo Calò - racconta il magistrato - era importante a Roma per se stesso per i suoi importantissimi contatti con la delinquenza locale, la banda della Magliana in particolare». E cita anche il corto, ovvero Totò Riina. «Quando si parlava di un traffico di stupefacenti che doveva interessare la Sicilia, mi dissero che non si muove foglia senza che il corto non dia il suo benestare».
Ricorda, il magistrato, anche i suoi inizi. Le difficoltà, le sfide, gli scontri che lo avrebbero atteso. «Quando sono entrato in magistratura, il procuratore dell'epoca - il povero Scaglione - mi diceva: ma io non ho problemi se una indagine la voglio accelerare, la affido a quel magistrato. Se voglio che le indagini siano fatte in una certa maniera particolarmente incisiva la affido a quel sostituto». «Ieri ho avuto una lunga discussione, quasi uno scontro con i colleghi di Milano che si lamentavano perché a Palermo non si potevano fare pedinamenti, non si potevano scoprire cose. Dicevo: c'è una piccolissima differenza. A Milano voi fate i pedinamenti. Qui si muore per queste cose. Qui in certe zone gli ufficiali di polizia giudiziaria entrano per pedinare e poi si accorgono di essere pedinati».
Le pause, il respiro, ancora un tiro di sigaretta. E poi di nuovo: «Ho finito di parlare giorni addietro con Contorno e dice che la situazione è terribile e lui ha notizie attuali ad oggi, perché vi è soprattutto adesso una cooptazione di personaggi che nel passato mai e poi mai sarebbero stati inseriti in Cosa nostra perché ritenuti o troppo sanguinari o troppo folli o di principi non troppo ortodossi». Notizie di prima mano che, secondo il magistrato, la mafia aveva costantemente. «Non c'è un omicidio sbagliato, finora, in seno a Cosa nostra - disse quasi in tono profetico -. Quando si uccise Dalla Chiesa tutti dissero: è stato fatto un errore storico. Poi hanno ucciso Chinnici e Cassarà e di nuovo tutti hanno detto che fu un altro errore storico. E continuiamo a fare errori storici. Hanno sempre indovinato, il momento opportuno, il momento giusto.
Hanno colpito al momento giusto. E questo dimostra, a parte la ferocia, una assoluta conoscenza di notizie di prima mano». Un messaggio che, riletto dopo trent'anni, suona davvero come una profezia.(2. fine)
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