
Dal nostro inviato a Osaka (Giappone)
Si fa la coda per tutto in Giappone. Per mangiare al ristorante, per prendere una metropolitana o un taxi (ma questo anche a Milano e a Roma), per entrare in un negozio di manga, pagare al supermercato e perfino per passeggiare in alcune strade. Eppure qui nessuno protesta: sarà per la religione buddhista o shintoista, o la disciplina inculcata fin da bambini che allunga le radici nell'etica dei samurai e li accompagna per tutta la vita. Tanto che un impiego molto diffuso in Giappone è l'organizzatore di code: sono in tanti, anche per strada quando il normale caos quotidiano diventa anche per loro eccessivo in una città come Tokyo che ha 37 milioni di abitanti, quattro Lombardie.
Ecco, se immaginate l'Expo di Osaka 2025, moltiplicate tutto questo per dieci e pensate che per vedere il Padiglione dei desideri, quello dell'Italia che ha come commissario l'ambasciatore Mario Vattani e mecenate il Gruppo Bracco, ci vogliono oltre sei ore. Dalle due alle quattro per molti altri, almeno un'ora per Paesi che la gente in attesa nemmeno conosce. E un'ora per riempire d'acqua la borraccia in un clima torrido, mezza per il taxi o la metro, il doppio per il bagno, un paio per il negozio dei gadget.
Ma in tutto questo c'è un'eccezione, una sola: il padiglione di Israele. Al centro ha "La Pietra", una reliquia di 2mila anni proveniente dall'antica Gerusalemme che diventa punto focale per la proiezione di versi biblici e messaggi dei visitatori: lì niente coda, si entra senza attesa. E non perché ci sia una prenotazione o perché sia brutto e non ne valga la pena: semplicemente perché la gente lo evita. Un boicottaggio nel clima di fraterno mondialismo delle esposizioni universali. E, invece, è proprio così. Nessuna conferma è possibile raccogliere al suo interno, ma basta chiedere ai Paesi vicini e con mezze ammissioni si deduce che è così. Con l'aggiunta che anche a loro viene informalmente raccomandato di evitare iniziative che comprendano gli scomodi confinanti e addirittura le fotografie che li coinvolgano: per non rischiare eventuali effetti di pubblicità negativa. E così colpisce ancor di più è la calca che affolla nazioni limitrofe, i cui stand sono poco più di un dépliant pubblicitario con qualche foto di mare smeraldo e indigeni in costumi variopinti.
Non il caso di San Marino, lì vicino con il suo padiglione elegantissimo e giustamente preso d'assalto, così come a pochi metri a essere assediato, ci sono il giallo e blu dell'Ucraina e la commovente scritta "Not for sale". Non in vendita. E allora è difficile non commuoversi davanti all'orgoglio di un popolo invaso che urla la sua fierezza a un mondo che non sembra davvero disposto a raccogliere il suo grido di dolore.
Destini diversi a cui si ripensa quando, passeggiando nel babilonesco quartiere di Dotombori, sul ponte più celebre di Osaka si incontra un manipolo di giapponesi che con le bandiere della Palestina urla "Free Gaza" al fiume di turisti che lo attraversa.
E allora se anche dall'altra parte del globo perfino i visitatori di un'Expo si preoccupano di condannare Israele, vien da dire che forse non è più il caso di sottovalutare un antisemitismo che si sta diffondendo: dalle nazioni che ne chiedono l'eliminazione, a quelle che ne stanno diventando fiancheggiatrici per poi passare perfino al banale senso comune dei frequentatori di un'Expo che dovrebbe abbracciare e non rinchiudere qualcuno in un ghetto. Sempre gli stessi. Una storia già vista.