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Erano una bufala i soldi russi alla Lega: il pm vuole archiviare l'inchiesta Metropol. "Salvini mai indagato"

C'erano gli incontri con i russi e c'erano le mail. C'era molto fumo ma non si è trovato l'arrosto. Finisce così in niente la strombazzatissima inchiesta sulla Lega

Erano una bufala i soldi russi alla Lega: il pm vuole archiviare l'inchiesta Metropol. "Salvini mai indagato"

C'erano gli incontri con i russi e c'erano le mail. C'era molto fumo ma non si è trovato l'arrosto. Finisce così in niente la strombazzatissima inchiesta sulla Lega che per tre anni ha tenuto sulla corda i dirigenti di via Bellerio. La procura di Milano chiede infatti l'archiviazione per tutti gli indagati accusati di corruzione internazionale in relazione ad una compravendita di 3 milioni di tonnellate di prodotti petroliferi russi che avrebbe garantito al partito un ritorno stimato in circa 65 milioni di dollari. È l'indagine che ha messo in difficoltà il partito fondato da Bossi perché certe posizioni filo-putiniane di Salvini sono state interpretate come un premuroso ossequio ai presunti oboli concessi dalla Russia, ma il finanziamento non c'è perché il progetto era miseramente naufragato.

Chiacchiere. Meeting, addirittura 40, compreso quello celeberrimo all'hotel Metropol della capitale immortalato da un audio, frasi avventate, quasi da film come quelle scandita dal broker Vannucci conversando con l'avvocato Meranda e riferite proprio a Salvini; il numero uno avrebbe detto: «Non fate il mio nome, non chiamatemi perché se no sono fottuto». E peró si scopre ora, dopo tanto tormento e illazioni di ogni genere, che il ministro delle infrastrutture non è mai stato indagato perché su di lui c'erano solo labili riferimenti che non avrebbero portato a nulla. Ma è tutta la storia ad avere gambe esili: suggestioni, allusioni e promesse, ma alla fine una mezza bufala. «Ci hanno messo alla berlina per cose insistenti», commenta il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana. «Il tempo - è la riflessione di Salvini - è sempre galantuomo». Tutto nasce il 24 febbraio 2019 quando l'Espresso mette in pagina un articolo che nel titolo dice già tutto: «Quei tre milioni russi per Salvini; ecco l'inchiesta che fa tremare la Lega». Il settimanale è andato a colpo sicuro perché ha pubblicato un audio che riporta il colloquio avvenuto al Metropol il 18 ottobre 2018 in occasione del viaggio nella capitale dell'allora vicepremier Salvini. Al tavolo del lussuoso hotel ci sono sei personaggi, tre italiani e tre russi: Gianluca Savoini, ex portavoce del premier, l'avvocato Gianluca Meranda, il finanziere Francesco Vannucci; con loro alcuni mediatori vicini all'establishment del Cremlino: Ylia Jakunin, contiguo al ministro dell'energia Dimitry Kozak, Andrey Kharchenko, ex agente dei servizi, più un terzo personaggio mai identificato. Si parla di un business promettente: l'arrivo nel nostro Paese di una maxi partita di petrolio con tanto di cresta da dividere fraternamente quasi a metà: 6 per cento agli intermediari russi, 4 per cento ai leghisti, come documentato dal pizzino di Savoini. Peccato che qualcuno, quasi sicuramente Meranda, registri tutto e che l'audio arrivi all'Espresso. La rivelazione mediatica, concludono oggi i pm, blocca l'iniziativa partita male e andata avanti peggio. E non si capisce nemmeno bene a che titolo il trio tricolore abbia interloquito con la controparte. «È verosimile - nota la procura - che Salvini fosse a conoscenza delle trattative portate avanti da Savoini, Meranda e Vannucci volte ad assicurare importanti flussi finanziari al partito... ma non sono mai emersi elementi concreti sul fatto che il segretario della Lega abbia partecipato personalmente alla trattativa o comunque abbia fornito un contributo causale alla stessa». Di più: Salvini ignorava il «proposito di destinare una quota parte della somma ricavata dalla transazione ai mediatori russi perché remunerassero pubblici ufficiali» di quel Paese. La corruzione non si è concretizzata, ma Salvini non immaginava nemmeno che potesse esserci. Ecco perché non è mai stato iscritto nel registro degli indagati. E poi, fra incomprensibili «autoregistrazioni», come quella attribuita all'ambiguo Meranda, si intuisce che la nomenklatura putiniana non avrebbe sponsorizzato gli sforzi del gruppetto.

Alla fine, il silenzio di Mosca davanti alle rogatorie della magistratura ambrosiana impedisce di approfondire quel poco che resta, oltre le parole.

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