
Un'intelligenza che risolve problemi, ma non sa spiegarne il perché. Un super cervello che ragiona per istanti, senza godere della durata che costruisce l'esperienza umana. Così Padre Paolo Benanti, filosofo e teologo, nel suo intervento all'evento "La nuova rivoluzione industriale", organizzato dal Giornale con il settimanale economico Moneta, descrive l'intelligenza artificiale: potentissima, ma per nulla intelligente.
La riflessione parte dal fatto che i chatbot rispondono solo a problemi quantificabili. In nulla possono sfamare le domande che da sempre perseguitano gli uomini. Tutto ha origine dal celebre dibattito tra Albert Einstein e il filosofo Henri Bergson che si svolse a Parigi nel 1922. "Il primo - spiega Benanti - riduceva il tempo alla sua misurabilità fisica, il secondo lo difendeva come durata vissuta". Per l'uomo "una sinfonia non è la somma di note, ma l'emozione che i pieni e i silenzi lasciano in noi". È proprio questo, il vissuto, a distinguere un essere intelligenti da un semplice ripetitore. La rapidità con cui questi istanti si susseguono e producono la risposta del chatbot ci trae in inganno: crediamo l'IA esista, proprio come noi. Ma questo è un equivoco e "sarebbe più corretto riconoscere una pluralità di intelligenze".
Per il suo funzionamento l'IA sembra avvicinarsi più che altro al comportamento animale. Un cane da valanga addestrato a salvare i superstiti sotto la neve - ricorda il filosofo -, consente di salvare vite. Ma non sa spiegare perché si debba scavare in un punto e non in un altro, così "tanti degli strumenti di intelligenza artificiale che usiamo oggi ci fanno ottenere ottimi risultati ma on sono spiegabili. Assomigliano molto di più a un animale ben addestrato non a caso, si parla di addestramento per le intelligenze artificiali".
Bisogna poi fare i conti con la sinistra ambiguità insita nella natura delle macchine. "Oggi gli algoritmi possono produrre farmaci salvavita o alimentare arsenali digitali", ricorda.
Il pericolo risiede anche nella loro incontrollabilità. Uno smartphone - ad esempio - è un hardware da mille euro che muta continuamente grazie agli aggiornamenti del suo software. Ogni miglioramento può trasformarlo in qualcosa di nuovo. "Quando lo comprate - spiega - , pagate un modello top di gamma per un hardware, ma quello che gli consente realmente di funzionare è il software". Ma è un c'è un problema: "Il software voi non lo comprate, ce l'avete solo in licenza. Con un aggiornamento può cambiare radicalmente che cosa fa e come funziona quell'oggetto. È quello che hanno scoperto in Ucraina, dove ogni cinque minuti viene aggiornato il software dei droni e questi diventano armi sempre diverse e sempre capaci di fare nuove cose".
Nel diritto romano, usus, abusus e fructus sono le tre facoltà che compongono la proprietà. Ma oggi questi tre diritti con il digitale sono messi in discussione: "Lo smartphone non è pienamente nostro. Possiamo usarlo, a volte distruggerlo, ma il valore economico generato dai dati e dalle applicazioni finisce alle grandi piattaforme. Oggi è il fructus, cioè il diritto a godere della rendita del bene he viene sottratto".
E questo è un problema che riguarda l'intera economia, non solo quella dei beni digitali. Perché l'intelligenza artificiale ridisegna la produzione di valore. "Senza un quadro normativo - avverte - , il rischio è un nuovo colonialismo tecnologico, che concentra i frutti della digitalizzazione in poche mani straniere".
Le persone devono rimanere al centro della produzione di valore, attraverso la consapevolezza del funzionamento di queste tecnologie, come proposto dall'ultima legge italiana sull'IA che - dice Benanti - "propone un modello umano-centrico". Solo così l'innovazione sarà sviluppo e non frattura sociale.