Milano. «Un po' di emozione c'era, lo ammetto». Premiato a Milano nel giorno di Sant'Ambrogio, Piero Tarticchio è un nonno di 86 anni, un uomo alto e dal vocione possente. Eppure, dentro di lui ancora si intravede quel bambino di Gallesano, a due passi da Pola, allora Italia.
Quel bambino dovette assistere al funerale dello zio, don Angelo, orrendamente torturato dai partigiani titini. E un anno dopo vide sparire il padre, portato via nottetempo da tre uomini armati e da uno sgherro in borghese della polizia politica di Tito. Arrestato e poi sparito nel nulla, senza neanche una tomba su cui poterlo piangere.
Sette familiari di Piero Tarticchio sono stati infoibati. E la battaglia di Piero è stata il ricordo di quell'orrore. Contro l'oblio, contro la mistificazione della sinistra. Un impegno costante, lungo decenni, per rimarginare quella ferita. Con i libri, le conferenze, le interviste, con i suoi lavori artistici, con il monumento che lui ha progettato e che - dopo anni - il Comune di Milano ha finalmente deciso di «accettare» e collocare in piazza Della Repubblica.
Al teatro Dal Verme, circondato e sostenuto dalle figlie, Piero due giorni fa ha ricevuto uno degli attestati ambrosiani, proposto dal leghista Samuele Piscina, prima negato e poi deciso dal Consiglio comunale: «Sono stato felice di questa onorificenza - ammette - Per me non cambia molto, io proseguo con la mia attività, ma mi ha fatto piacere, anche e soprattutto per la nostra gente, per il nostro mondo».
Piero è un simbolo, per la sua storia e per la sua opera. «Di soddisfazioni ne abbiamo avute poche e la dice lunga il fatto che quel monumento sia stato realizzato dopo oltre 20 anni di tribolazioni e delusioni, per la mancanza di attenzione delle istituzioni. Il comitato ha fatto tutto, Romano Cramer si è battuto con grande determinazione, la finanziatrice è stata Diana Bracco, che ha voluto raccogliere l'eredità del padre, Fulvio, un esule istriano che nell'arco della sua vita è stato molto generoso con i suoi conterranei. Milano infine si è riscattata, quando io ormai avevo quasi perso la speranza».
Tutta la storia degli esuli italiani dell'Istria, della Venezia Giulia, della Dalmazia, è la storia di una doppia ingiustizia subita: la cacciata - da parte dei comunisti slavi - da quella che allora era la loro Italia, e poi l'odio con cui sono stati accolti. «Anche l'Italia non è stata benevola in passato verso noi esuli - dice Piero - basti pensare all'immediato dopoguerra, quando si trattava di accogliere quelle famiglie, che avevamo una sola colpa: aver voltato le spalle al paradiso comunista di Tito. Per un partito comunista forte come lo era il Pci, era abbastanza per tacciarci tutti di essere reazionari e fascisti. Ecco perché gli esuli furono accolti in quel modo. Con le sassaiole, o con le manifestazioni ostili in cui - mia zia lo ricorda nel suo diario - contro gli esuli si agitavano le bandiere rosse e le grida: Non vi vogliamo, il vostro posto è nelle foibe.
Pensate - riflette - a come dovevano sentirsi quegli italiani, che avevano il sogno dell'Italia, un sogno di libertà in un'Italia creduta madre, che per volontà di qualcuno mostrò il cuore duro della matrigna. Avevamo abbandonato tutto: terra, casa, amici, parenti nei cimiteri, o nelle foibe. Fu terribile».«Ma oggi sono felice». Finalmente.
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