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Follie giudiziarie

C'è un limite a tutto, si dice, ma a quanto pare alla follia giudiziaria no

Follie giudiziarie

C'è un limite a tutto, si dice, ma a quanto pare alla follia giudiziaria no. Le richieste della pubblica accusa nell'ennesimo processo Ruby, siamo al ter, sono prive di qualsiasi «ratio», sono un'offesa al buonsenso, a meno che non si interpreti questa operazione - perché di questo si tratta - come un tentativo di «revanche» dei Pm milanesi per salvare la faccia ad inchieste e processi che finora hanno prodotto solo montagne di carta da far concorrenza alla biblioteca di Alessandria ma, nei fatti, si sono rivelati dei buchi nell'acqua.

Soprattutto non si capisce davvero a questo punto chi sia la vittima di questa «soap opera» processuale che va in scena nei tribunali della Repubblica da dieci anni. Sulla carta sarebbe dovuta essere Ruby, ma visto che la presunta vittima non si è prestata al gioco dei Pm, di botto si è ritrovata sul banco degli imputati con una richiesta di condanna di cinque anni corredata anche dalla confisca di 5 milioni. Per azzardare un paragone: negli Stati Uniti, patria del diritto, il procuratore speciale Kenneth Starr nel «caso» di Monica Lewinsky non riuscì ad incriminare Clinton pur avendo dalla sua la testimonianza della vittima. Con il risultato che finì a passeggiare ai giardinetti. Nel nostro Paese - la Repubblica delle procure -, invece, dopo un'assoluzione in Cassazione, si è imbastito un processo per mettere alla sbarra quella che sarebbe dovuta essere la «vittima» dei teoremi dell'accusa e i testimoni della difesa. Il «reato»? Aver testimoniato in favore del Cavaliere. Sì, il grande paradosso del Ruby ter è che nella mente dell'accusa la vera colpa di Silvio Berlusconi è di essere stato assolto in Cassazione nel Ruby uno. Siamo, quindi, oltre ogni logica. Anche la più perversa. E, quando l'intento è assurdo, è naturale che le contraddizioni si moltiplichino. Ad esempio, perché su 26 ragazze chiamate a testimoniare bisogna dare credito a sei che hanno testimoniato (in maniera alquanto nebulosa) che in quelle cene c'era qualcosa di strano e non alle altre venti, dico venti, che hanno detto il contrario?

La ragione è alquanto semplice: c'è una «ratio» politica in questo processo. Come in quelli, su altri temi e per altri reati, che hanno riguardato e riguardano Matteo Salvini, Matteo Renzi e tanti altri. La verità è che da noi il diritto viene piegato alle simpatie ideologiche e alle antipatie personali. I processi si trasformano in arene mediatiche, non si basano sulle norme del diritto ma sugli anatemi etici di qualche toga. È il passato che ritorna. Un anacronismo che rende ancora più chiara, e drammatica, la Storia degli ultimi trent'anni e che ci ricorda come basti poco per rimaterializzare i fantasmi. E ci rende chiaro come le riforme (e i referendum) che un pezzo di magistratura, guarda caso la più politicizzata, osteggia, non solo sono necessarie ma sono un dovere.

A cominciare dalla separazione delle carriere tra giudici e Pm: la requisitoria e la richiesta della pubblica accusa nel processo Berlusconi dimostra, infatti, al di là di ogni ragionevole dubbio, che si tratta di due mestieri diversi, di due vocazioni diverse, di due approcci culturali e mentali al diritto diversi.

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