La guerra per la libertà di Israele. L'"ora migliore" di Netanyahu

Dallo choc per il 7 ottobre all'offensiva contro chi minaccia l'esistenza dello Stato ebraico. Senza mai rompere con l'alleato americano

La guerra per la libertà di Israele. L'"ora migliore" di Netanyahu
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L'obiettivo Iran era nel titolo di testa della sua elezione al 37° governo di Israele, giovedì 29 dicembre 2022; nei suoi pensieri da sempre, nel Dna dell'educazione ricevuta dal padre storico Ben Tzion, intrecciata col concetto di libertà dalla minaccia esistenziale sempre in agguato per il popolo ebraico. «Netanyahu torna, mette l'Iran al primo posto» diceva il Jerusalem Post. Adesso è il momento del dovere, la «finest hour» per Churchill. In questi giorni Israele la capisce bene, perché non è più solo di Netanyahu: è di tutti, o quasi. Si combatte per completare la fondazione dello stato, si combatte la minaccia permanente scegliendo da soli quando farlo, e il nemico principale è evidente: la battaglia l'ha dichiarata dal '79 il regime iraniano contro lo stato ebraico e l'intero Occidente. Per quattro volte Netanyahu (più di ogni altro leader) ha parlato al Congresso americano, l'ultima il 24 luglio 2024, dopo il 7 ottobre. Non ha portato lamentele e richieste, ma promesse di rivincita. Ha ripetuto che era diventato impossibile il rapporto con Obama, che voleva l'accordo con gli ayatollah, e difficile quello con Biden, che cercava di recuperare l'accordo sacrificando il destino di Israele.

Bibi ha trovato le prove che gli ayatollah mentivano al mondo: l'atomica destinata alla distruzione di Israele era per strada con una gigantesca batteria di missili. Senza mai rompere con gli alleati americani, alla fine è andato. Dal 7 ottobre si è preparato: qualche giorno di choc, il viso bianco e gonfio, la richiesta di lasciare e la contestazione alla sua persona moltiplicata per mille, niente sonno, due volte in ospedale, poi ha fatto quello che doveva. Ha giurato che Israele non aveva perduto la deterrenza di Entebbe. Suo fratello Yoni era morto lì, e lui in suo nome avrebbe combattuto, come disse a Blinken dopo il veto su Rafah: «Con le unghie, se smetterete di darci munizioni».

Ora è se stesso: la battaglia col male è frontale, in questi giorni l'immagine in tv, sul campo e tra le rovine testimonia umore quieto ed energia. Le accuse invidiose che sono state mosse contro di lui in questi anni sono tutte tecnicamente legittime e insieme prive di ogni consistenza fattuale: l'alleanza nel governo conservatore non ha mai dato segni di «messianismo»; il suo processo sta andando in pezzi; le accuse di genocidio e pulizia etnica si sfaldano sulla verità di una guerra condotta al minimo del danno per i civili.

Netanyahu ha individuato l'anello di acciaio dell'Iran con Hamas e Hezbollah, ha puntato tutto sull'attacco dei beeper del 17 settembre 2024 e sull'eliminazione di Nasrallah il 27 settembre. Intanto i soldati israeliani, pagando con la vita, bloccavano Hamas e distruggevano gli Hezbollah. Poi, ha scelto di rifiutare l'intesa che avrebbe riportato Gaza in mano ai macellai del 7 ottobre.

Non c'è nessuna hybris: c'è una quieta determinazione a completare la fondazione d'Israele. Bibi ha spiegato più volte come quando i Paesi arabi, dopo i Patti di Abramo, hanno cessato di assemblare eserciti per cacciare gli ebrei, l'Iran ne ha sostituito il disegno assassino.

Aveva ragione fino a che Israele non ha deciso di dargli battaglia fino in fondo. Ci voleva un leader come Netanyahu per affrontare il tema vero, dopo tanti infingimenti che hanno disegnato accordi fasulli, piani irrealizzabili.

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