I grillini elencano i giornalisti "buoni"? Bene. Noi elenchiamo i giornalisti "bravi"

Mentre il grillino Alessandro Di Battista ieri (dopo le polemiche dei giorni scorsi sui giornalisti “sciacalli” e “puttane”) ha stilato la sua personale lista dei giornalisti “buoni” (Travaglio, Massimo Fini, Luisella Costamagna…) noi tentiamo una altrettanto personalissima lista dei giornalisti “bravi”. Pubblichiamo qui l’intervento dal titolo “C’era una volta la grande firma” di Luigi Mascheroni sul “gusto” (ormai perduto) della bella scrittura giornalistica che appare sul nuovo numero della rivista letteraria illustrata “Maradagàl” diretta da Sara Calderoni e dedicata al tema del “gusto”, in tutte le sue declinazioni.

I grillini elencano i giornalisti "buoni"? Bene. Noi elenchiamo i giornalisti "bravi"

La letteratura italiana – per alcuni notabili critici – sta morendo, o è perlomeno momentaneamente svenuta. Di noia. E anche il giornalismo non sta molto bene. Ecco, il giornalismo. Siamo sommersi da notizie, “ultima ora”, editoriali&commenti. Travolti da tweet, fotogallery, video&gossip. Sopraffatti da polemiche, scandali, consigli dell’esperto. People, lifestyle, technology, fashion&sapori. Abbiamo persino riscoperto un’antica abitudine: le fake news, pensando che sia una novità (fake news anche questa). La narrazione è diventata ubiqua; si è infilata dappertutto meno che sulla carta stampata. Così ci stiamo perdendo le storie, da sempre il sale dell’informazione. E soprattutto le storie ben scritte, da sempre il pepe del giornalismo. E senza sale e senza pepe, che gusto c’è?

C’è che, da un po’ di tempo, in tempi di cui tutti digitano e tutti scorrono, abbiamo dimenticato il gusto di scrivere e leggere bene. Che non significa scrivere e leggere tout court. Quello lo sanno e lo possono fare tutti. Significa scrivere e leggere concedendo qualcosa (cioè: tanto) alla narrazione fine a se stessa (che però è l’inizio di molto), alla forma (che è contenuto), all’eleganza (che è tutto), addirittura al superfluo (che è indispensabile). Si chiama stile. Un articolo disteso, ricercato, lungo centoventi righe (oooohhh!!!) non ha mai fatto male a nessuno.

Nessuno può negarlo. Le notizie, non basta darle. Ma non basta neppure spiegarle e interpretarle. Le notizie vanno raccontate. Che è diverso. È come un abito. Non è sufficiente indossarlo. E neppure indossarlo secondo l’occasione e il contesto. Va – come dire? – personalizzato. Fatto proprio, reso unico, scegliendo i colori, i tessuti, gli accessori giusti. È questione, appunto, di classe. Ecco: quello che ci manca, oggi, è il gusto per una certa ricercatezza. E la ricercatezza, nella scrittura (anche in quella giornalistica), non è un “di più”. Non è pura forma. È l’essenza, la sostanza.

Scrivere bene. Quanto ci manca. Per scrivere è sufficiente un buon vocabolario e un po’ di tempo. Ma per scrivere bene serve altro. Certo: competenza, autorevolezza e attendibilità, le virtù teo-tipografiche del Giornalismo. Ma poi anche una sensibilità sottile, un’intelligenza lucida, una cultura ricca, una tecnica raffinata. Risultato: una soddisfazione impagabile, dal punto di vista della lettura, per coloro – pochi ma esigenti – che ancora faticano ad acquistare i quotidiani.

Il punto è che l’epoca della scrittura giornalistica “nobile”, quella per la quale il lettore sceglie di leggere o meno un pezzo, è al tramonto. Penne acuminate addio. Le conseguenze, sia nel gusto della scrittura, per chi scrive sui giornali, sia sul gusto della lettura, di chi i giornali li legge, sono sotto gli occhi tutti. È il crepuscolo del giornalismo come prosecuzione con altri mezzi della letteratura (e viceversa). E il tramonto della firma.

Un tempo la firma – ha detto qualcuno – era lo shining che stregava il lettore e lo spingeva a scegliere quel particolare giornale per come era pensato, e quel particolare articolo per come era scritto. Oggi, sui giornali, i professionisti della scrittura stanno sparendo. L’elzevirista riposa in pace da un pezzo; l’inviato speciale del secolo scorso, quello che poteva spendere giorni a prendere informazioni sul posto prima di scrivere un pezzo, è in via di estinzione. La critica, tradizionale fiore all’occhiello degli scrittori prestati alla stampa (il teatro secondo Flaiano, il cinema secondo Moravia, la televisione secondo Bianciardi…), langue a sua volta; unico caso in controtendenza, il critico gastronomico.

Per contro, nella Rete tutti scrivono di tutto. Ma nell’oceano digitale è più facile pescare piccole eccezioni che firme sontuose. Alzi la mano chi conosce cinque grandi penne (dài, anche solo tre…) uscite dal web in Italia negli ultimi dieci anni… Silenzio.

La verità è che a differenza dei vecchi giornali cartacei, dove il lettore attento riconosceva una firma e la cercava, dentro il web, dove un nome è uguale all’altro e il pubblico più difficilmente distingue chi scrive, sembra agitarsi una grande mano che scrive tutto, e sempre nello stesso modo peraltro. In molti, tra i giornalisti di ultima generazione, si sono guadagnati rispetto per il loro fiuto e l’indipendenza di giudizio. Ma raramente per lo stile di scrittura. Stiamo parlando di originalità stilistica, di personalità estetica, di creatività che si fa letteratura. Dopo i Buttafuoco, i Giuliano Ferrara, i Francesco Merlo, i Solinas, le Emanuela Audisio e pochi altri… il nulla. O almeno, il poco. Tutti scrivono per se stessi, pochissimi per il lettore. Andiamo verso un mondo dove nessuno legge perché tutti scrivono? Dalla carta al web, l’inesorabile evoluzione del (dis)gusto.

E poi forse, non è neppure un problema di supporto, ma di vocazione. Il futuro della bella scrittura è ovunque qualcuno riesca e voglia raccontare – bene, con competenza e con passione – un evento, un personaggio, un luogo, uno spettacolo, persino un libro.

E attenzione. Non è un discorso che riguarda la vecchia, cara, retorica (ex) Terza pagina, che ha rappresentato nel nostro giornalismo il luogo privilegiato per accogliere la prosa d’arte, da Emilio Cecchi in giù. Ma anche, e verrebbe da dire soprattutto, nella “nera” (ah, quando c’era Buzzati…), nella cronaca e nella polemica politica (i Montanelli, i Biagi, i Bocca, la Fallaci), nel costume (tanti, senza scomodare Irene Brin e la Cederna), nello sport (quando Pratolini andava al Giro d’Italia)… Non a caso le pagine più lette del quotidiano. Ai Mondiali di calcio del 1982 – ma è un esempio un po’ troppo facile, lo riconosciamo – in Spagna andarono: per «Repubblica» Gianni Brera, per il «Corriere della Sera» Mario Soldati, per «il Giornale» Giovanni Arpino e per «La Stampa» Oreste Del Buono (e chiediamo scusa per il sussulto provocato in chi legge). Avere una “cronaca” di Soldati e Brera – ha fatto notare qualcun altro – non è la stessa cosa che avere un pezzo di Gramellini o Riotta. Con tutto il rispetto per Soldati e Brera (l’accostamento è stucchevole, va ammesso). Se ci pensiamo, al netto di tanti scrittori riciclatisi mestamente in giornalisti e tanti giornalisti convinti a torto di essere scrittori, la relazione pericolosa, a volte addirittura l’incesto, tra grande giornalismo e grande letteratura ha prodotto risultati straordinari. Seguono i nomi, a scelta e a caso, di Malaparte, Vergani, Cancogni, Parise, Enzo Bettiza, i due Viola (Beppe e Sandro: più diversi tra loro non si potrebbe, ma entrambi grandi)…

Forse, ma lo diciamo sommessamente, servirebbero più giornalisti-scrittori, mossi dalla volontà di raccontare il mondo con l’occhio allenato del cronista ma con lo stile riconoscibile del letterato, e meno giornalisti-romanzieri, spinti dall’ambizione di presentare il loro nuovo libro in tv col sottopancia dell’editorialista di giro. Una volta l’aspirazione massima di chi faceva “il mestieraccio” era firmare un elzeviro sul «Corriere della Sera».

Oggi parlare del proprio romanzo a Che tempo che fa.

Che bei tempi… Quelli in cui la sopravvivenza del bello scrivere sarà ancora coniugata all’ostinazione di chi non si accontenta di cliccare e scorrere per avere una notizia. Ma vorrà continuare a leggere una storia.

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