L'abuso dello sciopero come lotta politica

Non c'è settimana da quando il centrodestra è al governo che non sia indetto uno sciopero a livello locale o nazionale

L'abuso dello sciopero come lotta politica

Non c'è settimana da quando il centrodestra è al governo che non sia indetto uno sciopero a livello locale o nazionale. Nella giornata di ieri si è raggiunto l'apice con una concomitanza di proteste difficilmente replicabile. Agli ormai consueti scioperi nella scuola e nei trasporti, complice la festa della donna dell'8 marzo, si è aggiunta la manifestazione del movimento transfemminista e delle femministe. La protesta, promossa dal movimento nazionale Non Una Di Meno, è stata condivisa da alcune sigle sindacali con lo slogan «Se ci fermiamo noi, il mondo si ferma». Tra le motivazioni alla base dello sciopero, c'è quella contro «l'ideologia Dio, patria e famiglia del Governo» con il paradosso che le femministe scendono in piazza per protestare contro il primo governo della storia italiana ad essere presieduto da una donna. Così in piazza è comparso uno striscione tanto volgare quanto blasfemo con la Madonna a forma di vagina al grido «Giorgia Meloni non sopporta le lotte femministe».

Un concentrato di politicamente corretto sono invece le motivazioni alla base del corteo studentesco di Milano che si può sintetizzare nello striscione esposto durante la manifestazione: «Siamo la generazione meticcia e queer in lotta per il futuro». Nel comunicato, in un tripudio di asterischi al posto delle vocali finali per il rispetto del gender, si legge: «siamo orgogliosamente meticc* e queer in un mondo in cui i diritti delle persone razzializzate e non conformi agli standard patriarcali vengono negati». Per poi aggiungere: «Vogliamo in tutte le scuole lezioni di educazione ecologica, sessuale e di genere volta al piacere e al consenso, non eteronormata e non binaria, e uno psicologo di base per tutt*». Immancabili i riferimenti alla lotta climatica e al «diritto di autodeterminare i nostri corpi» fino ad arrivare alla richiesta di una scuola «decolonizzata»: «non accettiamo una didattica eurocentrica che giustifica i crimini del colonialismo, ignorando la disumanità odierna dei confini e dei lager, in cui le persone migranti vengono torturate e uccise».

Diverse le motivazioni alla base dello sciopero dei trasporti ma senza dubbio più impattanti sulla vita dei cittadini ormai costretti a subire con una frequenza crescente i disagi per utilizzare i mezzi pubblici. Lo stop di ventiquattro ore indetto dalle organizzazioni sindacali Cub, Cobas, Si Cobas, Slai Cobas, Sgb, Usb e Us in occasione della giornata internazionale delle donne, ha riguardato «il peggioramento della condizione generale di vita delle donne a partire dalla condizione di lavoro nel nostro Paese, che investe tutti gli altri ambiti: sociale, familiare, culturale». Il punto non è mettere in discussione il «diritto allo sciopero» sancito dalla Costituzione, quanto porre l'attenzione sul fatto che un'intera nazione non possa essere ostaggio degli scioperi.

Abusare di uno strumento democratico con motivazioni spesso discutibili (qualche settimana fa l'azienda di trasporto pubblico di Roma incrociava le braccia contro la guerra in Ucraina), rischia di delegittimarne il valore agli occhi dei cittadini.

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