Chissà se davvero, come dice l'avvocato Franco Coppi citando il vecchio Delitala, «il diritto è un po' di logica e un po' di buon senso». Di una cosa Coppi è sicuro: logica e buon senso non possono portare ad altro che ad assolvere in pieno Berlusconi per il caso Ruby. Venerdì, quando entreranno in camera di consiglio per la sentenza, i giudici della Corte d'appello non potranno uscirne che con una sconfessione piena e totale dell'inchiesta della Procura milanese e della sentenza di primo grado. Niente concussione, niente prostituzione minorile.
Possibile? Difficile, ma possibile. Ieri, i nuovi difensori di Berlusconi, Franco Coppi e Filippo Dinacci (che ufficialmente sono qui come sostituti di Ghedini e Longo, ma non perdono occasione per smarcarsi dalla linea precedente) vanno all'attacco in una manciata di ore del castello dell'accusa, quello che nel giugno 2013 portò alla condanna del Cavaliere a sette anni per avere costretto la Questura a rilasciare Ruby, inventandosi la parentela con Mubarak per impedire che venissero a galla le allegre notti di Arcore.
Nulla di tutto questo è vero, dicono Coppi e Dinacci, e soprattutto nulla è provato. «Berlusconi ci maledirà», dice Coppi, perché (e qui la differenza con la vecchia linea è lampante) i difensori ammettono che non furono solo cene eleganti: «Ci saranno stati atteggiamenti disinvolti» dicono; è possibile che «a fronte di un clima da locale notturno qualcuno nella interpretazione sia andato oltre»; e che tra il premier e alcune ospiti abituali ci fossero eccessi di «cordialità e confidenza», e in fondo «finalità scollacciate». Ma tutto questo non vuol dire niente. «Sarà poco simpatico o poco apprezzabile, ma non siamo qui a fare valutazioni morali e di costume, siamo qui a occuparci di reati». E di reati, dicono i due, non c'è traccia. La sentenza di condanna si basa su «un travisamento di prova gravissimo».
È il passaggio più duro delle arringhe delle difese. Che accusano i giudici di primo grado di essersi né più né meno inventati elementi di fatto di cui negli atti non c'era traccia. Come quando si parla di un «ordine» che Berlusconi avrebbe impartito di rilasciare Ruby. Coppi: «È una invenzione della sentenza. La sentenza non è in grado di indicare una sola parola di Silvio Berlusconi che suoni come un ordine. Ciò nonostante non parla né di richiesta, di preghiera o di raccomandazione, ma di ordine». La verità, dice Coppi, è che «in Questura non vedevano l'ora di togliersi la ragazza dalle scatole perché questa era la prassi». «Il massimo che può essere accaduto quella sera è stata una accelerazione delle procedure di identificazione. Una accelerazione che Silvio Berlusconi dovrebbe pagare con sette anni di carcere».
Anche alla bistrattata faccenda della nipote di Mubarak, i difensori nella ricostruzione attribuiscono dignità: «Berlusconi ci credeva davvero». E soprattutto è la riprova che non ci fu minaccia: «Se fosse vero che Berlusconi si inventa la parentela, vuol dire che fa così poco affidamento sulla propria autorevolezza che per tirare giù dal letto Ostuni deve ricorrere a una bugia. E questa sarebbe la concussione, la costrizione?».
D'altronde, secondo i difensori, a Berlusconi mancava anche il movente: non serviva che Ruby stesse zitta, perché Ruby non aveva niente da dire. Non era andata a letto con Berlusconi. E a dirlo è lei stessa, che «ha detto tutto e il contrario di tutto ma su un punto ha sempre detto la stessa cosa, cioè sulla assenza di rapporti sessuali con Berlusconi». E lo ha detto (ed è forse il punto più solido di questo capitolo delle arringhe difensive) non solo quando il caso era ormai esploso, e Berlusconi e i suoi legali si stavano muovendo per limitare i danni. Ma anche nel luglio 2010, quando veniva interrogata in gran segreto dai pm milanesi, e gettava «secchiate di fango» sul Cavaliere, raccontando che ad Arcore girava la cocaina, e di avere visto il padrone di casa impegnato in un partouze con tre ragazze. Ma anche allora, ha negato.
Venerdì la sentenza. In una intervista a Diva&Donna, Ruby si mostra pessimista: «Il processo è una bufala», ma «ho sempre meno speranze».
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