Alea iacta est. Il dado è tratto: Matteo Salvini non lo dice, ma da giorni è chiaro che il guado del Rubicone cambia gli orizzonti. Cambia (forse) persino la visione del mondo.
Eppure per un capo leghista la parola data resta importante: così nell'entourage salviniano viene letta con un po' preoccupazione l'accusa di tradimento, ieri rivolta papale papale dall'alleata della traversata nel deserto, Giorgia Meloni. Parole che fanno male, indubbiamente. Salvini non ci sta: «Io sto facendo questo perché gli alleati del centrodestra mi hanno detto vai. Chiedete a Berlusconi o alla Meloni se hanno cambiato idea. Io sto facendo quello che sto facendo per il bene del Paese e solo e soltanto dal momento che gli alleati del centrodestra - io continuo a ritenerli alleati - mi hanno detto Matteo vai e provaci». Ricostruzione contestata vivacemente dalla Meloni («Salvini non ha mica chiesto il mio consenso a trattare con i M5S...»), ma è chiaro che le strade si sono già separate e le prospettive sono assai diverse. Quella salviniana si avvicina all'orbita maggiore: il segretario leghista muore dalla voglia di far partire il governo, come dirà nell'incontro con i gruppi parlamentari organizzato nel primo pomeriggio. «Finalmente si comincia a lavorare, speriamo che nessuno ci metta bastoni fra le ruote», afferma con entusiasmo, ribadendo che su Savona all'Economia la Lega non cede e che «eventuali veti andrebbero spiegati a 18 milioni di italiani». L'aria è quella del momento storico, Salvini non lo tiene più nessuno e l'ossessione per gli psicofarmaci («meno psicofarmaci, più sicurezza per gli italiani», aveva lanciato a mo' di slogan l'altro giorno) sembra ora scemare in sincero apprezzamento per gli alleati grillini, «volenterosi e affidabili», ben diversi da quelli di centrodestra, «con i quali ho avuto più volte difficoltà a ragionare e che poi puntualmente vanno in tv per criticare l'operato della Lega».
L'afflato salviniano è ora rivolto tutto alla poltrona ministeriale. «Ho sempre detto di essere a disposizione», spiega, dopo aver confermato in mattinata a Mattarella che il nome di Conte «non si tocca», considerato che c'è una «maggioranza politica e Conte non sarà mero esecutore». In giornata non mancherà neppure la solenne dichiarazione anti-mafia: «A 26 anni dalla strage di Capaci, un pensiero e una preghiera per i nostri martiri. La mafia mi fa schifo e, se avrò l'onore di andare al governo, la combatterò con ogni sforzo e con ogni mezzo». Il Viminale è il sogno accarezzato da settimane, almeno da quando è stato evidente che non sarebbe mai nato un «governo Salvini» e che avrebbe dovuto cedere su molti punti del programma leghista, in particolare sul rapporto con la 'Ue, com'è apparso in tutta evidenza dopo le prime dichiarazioni del premier incaricato. Salvini abbozza, non se ne cura, fila dritto come un treno. La poltrona di vicepremier, anzi di «premier-ombra», sarà dell'esperto Giorgetti, mentre per l'esperienza all'Interno il capo leghista ha voluto precise informazioni da un suo predecessore, Bobo Maroni, incontrato per un'ora in un bar nei pressi di Montecitorio.
«Una persona che ha fatto bene il ministro dell'Interno, il ministro del Lavoro e il governatore non può che dare suggerimenti utili». Ma quando gli si ventila l'ingresso del competitor interno nel governo, Salvini taglia corto: «Fortunatamente per lui, e io lo invidio molto in questo momento, ha una professione e una vita molto più bella della mia».
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