Nata nel secondo dopoguerra per volontà dell'allora generale de Gaulle, e perno della sua V Repubblica dopo la riforma costituzionale del 1958, L'Ena, la scuola di amministrazione nazionale, ha visto uscire dalle sue fila quattro presidenti su otto, fra cui, appunto, quell'Emmanuel Macron che ora vuole sopprimerla. È una delle tante «false buone idee», secondo la definizione, ripresa da Le Monde, di un funzionario vicino all'Eliseo, con cui l'esecutivo in carica ha cercato nel tempo di contrastare la caduta a piombo della popolarità nei sondaggi, ovvero la mancanza di fiducia di una nazione nei confronti del monarca repubblicano che la rappresenta.
I difetti dell'Ena sono noti e riguardano la selezione che ne forma i quadri: il 26% dei suoi borsisti viene dall'insegnamento superiore, il 14% degli studenti sono di origine operaia, il 9% dall'agricoltura, il 12% dall'artigianato e dal commercio, un altro 12% per cento dal ceto impiegatizio. In sostanza, l'elemento egalitario, uno dei temi più sentiti dal cuore dei francesi da due secoli a questa parte, fa fatica a rapportarsi con quello meritocratico, che a propria volta risale alla Rivoluzione dell'89 e si configura nella «vanità», anch'essa tipicamente francese, di chi si impone per le capacità indipendentemente dalle origini, il famoso «bastone da maresciallo» che Napoleone Bonaparte vedeva nello zaino di ogni soldato semplice.
Altro elemento discusso dell'Ena è che fra le «grandes écoles» che fanno da vivaio, quella di Sciences Po ha la parte del leone, ma, a partire dagli anni Settanta, il suo indirizzo liberista ha immesso nell'amministrazione dello Stato una categoria di funzionari paradossalmente antistatale, ovvero favorevole alla privatizzazione, all'abbandono dell'intervento pubblico, in una parola al disimpegno dello Stato nelle questioni economico-sociali, più come un dogma di fede che per un elemento di ragione.
A fronte di tutto ciò, la sua «soppressione» appare più come una formula con cui Macron cerca di esorcizzare un problema piuttosto che risolverlo, una sorta di «ritorno al futuro», come dicono i suoi consiglieri ministeriali, con cui si fa un maquillage linguistico. Da quando egli è divenuto presidente, i suoi infortuni verbali hanno purtroppo fatto scuola, così come la propensione a pasticciare nei confronti pubblici. L'uscire vittorioso nel tête à tête con Marine Le Pen non gli ha impedito, un anno dopo, di ritrovarsi in imbarazzo di fronte a intellettuali e/o giornalisti meno gravati, rispetto alla sua sfidante alle presidenziali, di lasciti familiari e insufficienza sui temi economici.
Macron si trova inoltre a dover affrontare lo iato esistente fra promesse di cambiamento e forze residuali che a esso si oppongono o, detto in altre parole, nella difficoltà di convincere un Paese in crisi economica e sociale che le colpe non derivano da chi l'ha amministrato, ma da chi si è fatto amministrare.
Il voler scaricare su quella che è comunque l'istituzione più rappresentativa della Repubblica l'onere della colpa è ancora più paradossale visto che proprio Macron ne è uno dei rappresentanti più titolati, il tecnocrate che grazie a essa ha raggiunto i vertici del potere economico-burocratico prima, poi della cosa pubblica.
In quanto «enarca», dovrebbe insomma procedere all'epurazione partendo da sé stesso, altrimenti tutto il resto è noia, come diceva uno chansonnier italiano, Franco Califano. Ma Macron che ha presenziato ai funerali di Jonny Halliday, non lo conosce.
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