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L'illusione della "glasnost". Il comunismo? Non è morto

L'Urss è stata archiviata troppo in fretta. I principi illiberali circolano ancora nell'economia. E il sindacato li alimenta

L'illusione della "glasnost". Il comunismo? Non è morto

La glasnost, operazione trasparenza, fu talmente veloce da non far vedere le ragioni della fine del comunismo, e infatti ce lo ritroviamo ancora tra i piedi.

Il comunismo contiene molti e forti punti di contatto con le dottrine religiose che vogliono gli uomini tutti uguali e che insistono sulla distribuzione dei beni e sulla generosità verso gli altri. Tuttavia, non è una fede ma una teoria economica che, mettendo insieme fattori sociali ed economici, costruisce un modello per l'equa distribuzione della ricchezza, che era il tema centrale dell'economia nel primo secolo della rivoluzione industriale, quando la creazione di ricchezza non pareva così in discussione.

A differenza della fede, ha il grande vantaggio di poterlo sottoporre alla prova dei fatti. Così, più Paesi nel corso del Novecento l'hanno adottato e tra questi il più importante è stato l'Unione Sovietica, retta per 70 anni da un regime comunista. Sì perché fu subito chiaro che il modello avesse bisogno di un regime, poiché pare che i cittadini non si trovassero poi tanto bene. In effetti, pure chi non abbia grandi conoscenze di economia può giudicare quanto i russi o i tedeschi dell'Est fossero contenti del modello comunista. Comunque, la bocciatura della storia è in economia: assolutamente incapace di produrre ricchezza, ha mostrato molte debolezze anche sulla distribuzione, la sua ragion d'essere. Infatti, è imploso su se stesso, dopo esser durato 70 anni, non poco. Di tutto l'esperimento l'aspetto forse più sorprendente è la quasi totale mancanza di analisi del risultato.

In pochi anni, a me gli occhi, carta vince e carta perde, et voilà: giù il muro, glasnost, perestroika e scioglimento dell'URSS, quasi si trattasse dell'ultimo e più marginale staterello sullo scenario geopolitico. Tanto per dire, il fascismo, considerato volgarmente l'antagonista del comunismo, ha governato per 20 anni ma è stato archiviato con un processo storico molto lungo e puntellato di occasioni di ricordo. Al punto che oggi è facile etichettare un movimento o un esponente politico come fascista per bollarlo negativamente. Certo, è un paragone insostenibile nel contenuto ma è giusto per cogliere il senso, anzi l'assenza, dell'elaborazione storica del comunismo sovietico, i cui principi e valori sono vivi e vegeti nella nostra società. Non per un caso ma per un vero capolavoro.

I figli del PCI hanno subito condannato il comunismo, alcuni addirittura sostenendo di non esserlo mai stati e di non aver mai approfondito il significato di quella C nel simbolo. L'abilità è stata puntare il dito sulla dittatura e sulla mancanza di libertà, sorvolando leggiadri sull'incapacità del sistema di produrre la ricchezza che ambiva a distribuire. Così da sdoganare un'idea semplice: purché in democrazia e libertà, quei principi possono funzionare e sono auspicabili. Anche la contro-narrazione di fine secolo concentrò le sue bordate sulla libertà anziché insistere sul valore della competizione e dello spirito di impresa. Probabilmente valutando che sul piano dell'economia non sarebbe stato facile contrastare quel proselitismo, arrivato negli anni '70 a un terzo dei cittadini e tra i giovani di allora, oggi adulti, anche di più. Fatto sta che è tuttora molto forte, specie nella parte della società non esposta alle leggi del mercato e dell'iniziativa personale, con il sindacato in funzione di vestale ad alimentare la fiammella. Però il comunismo non è un regime politico ma una teoria economica e come tale nella pratica ha fallito.

La glasnost su questo è stata una finestra aperta e richiusa troppo in fretta.

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