
"Nulla sarà omesso". Sono 33 anni che il Paese aspetta la verità sulla morte di Paolo Borsellino e dei suoi cinque agenti di scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e Emanuela Loi, la prima poliziotta vittima del dovere. Ed è una donna, la presidente della commissione Antimafia Chiara Colosimo, a giurare ai figli del giudice Fiammetta e Manfredi "la scrittura di una verità storica, oggi che le parole del magistrato sul tribunale di Palermo nido di vipere sono una realtà".
Nell'assolata città siciliana arrivano di buon mattino i fumi neri dell'ennesima rivelazione che coinvolge gli inquirenti di peso di allora, come Ilda Boccassini e Gianni De Gennaro. Sporcati anche loro da sospetti impensabili e antichi veleni assieme a Giuseppe Pignatone, Gioacchino Natoli, Giovanni Tinebra, Pietro Giammanco, indagati e spiati anche da morti, come i mafiosi a cui davano la caccia, dalle Procure impegnate ventre a terra a ricostruire una verità che fa male, "una ferita aperta nella memoria collettiva", come ribadisce il presidente del Senato Ignazio La Russa.
Mentre risuonano le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella su "l'imperituro senso di riconoscenza verso "servitori dello Stato che con dedizione e sacrificio hanno combattuto il cancro mafioso", è arrivato il momento di capire chi altro voleva farli fuori. "Non c'è libertà senza giustizia, non c'è Stato senza legalità", sottolinea sui social il premier Giorgia Meloni, che 15enne davanti a quelle macerie bruciate in Via D'Amelio - rianimata ieri grazie ai bambini che hanno giocato e disegnato - decise di scendere in campo come tanti altri "ragazzi" di Borsellino" per vendicare "chi non ha mai chinato la testa".
A Palermo c'era Arianna Meloni, la responsabile politica di Fdi, a reggere lo striscione "Paolo vive". Con la Colosimo anche il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi ("Il loro estremo sacrificio sia d'ispirazione e monito per le nuove generazioni") e il capo della Polizia Vittorio Pisani a rendere omaggio alla Caserma Lungaro di Palermo, presenti il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè, il governatore siciliano Renato Schifani e il sindaco di Palermo Roberto Lagalla. "Come ci ha insegnato Borsellino, la mafia si sconfigge innanzitutto negandole il consenso sin dai banchi di scuola", sottolinea sui social il ministro dell'Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, "contro la fascinazione del male di cui i giovani rischiano di restare vittima", denuncia ancora la Colosimo. Per questo "serve la cultura, antitesi della mafia che attecchisce dove regna ignoranza, bruttezza e isolamento sociale", ricorda il ministro della Cultura Alessandro Giuli.
A cantare fuori dal coro ci pensa Giuseppe Conte, più interessato alla reputazione dei suoi parlamentari "campioni dell'Antimafia" Roberto Scarpinato e Federico Cafiero de Raho che alla verità. "Risparmiateci le frasi di circostanza su Borsellino, vi fermeremo", scrive su Facebook il leader M5s a cui evidentemente dà fastidio la contronarrazione sposata ormai anche da Repubblica, secondo cui Borsellino e Giovanni Falcone furono fatti fuori anche perché avevano scoperto l'intrigo tra boss, coop rosse e imprese del Nord ricostruito dai Ros che qualche toga del tempo voleva insabbiare, riuscendoci. "Vi impediremo di scrivere una storia di comodo - tuona l'ex premier - non servirà imbavagliare gli ex magistrati né cacciarli dalle commissioni".
A questa e altre sgrammaticature ("il depistaggio è ancora tra noi", sibila Salvatore Borsellino) che fanno comunque il gioco dei boss, risponde il numero uno della Dna Giovanni Melillo: "Speravo in una pausa delle tensioni, purtroppo così non è stato".